Occupazione, salari, futuro: il lavoro richiede qualità

Cresce l’occupazione in Italia, ma il record storico non colma le disparità: bassi salari, precariato e mancanza di autonomia continuano a penalizzare l’esperienza professionale di alcune categorie, in particolare di donne, giovani e lavoratori del Sud. A evidenziarlo sono diversi studi, come quello condotto dal Forum Disuguaglianze Diversità e da Svimez, che fotografano lo stato di salute della penisola da una prospettiva economica e occupazionale. Per ridare dignità al lavoro, occorre agire su più fronti, a partire da quello salariale, senza tralasciare le sfide dettate dai cambiamenti in atto e dall’innovazione tecnologica.

 

Occupazione e salari

 

Negli ultimi mesi, il numero di occupati in Italia ha superato i 23 milioni, con un tasso di occupazione di oltre il 60% – un dato storico che, tuttavia, non rispecchia la situazione attuale dei salari. L’Italia è infatti l’unico tra i Paesi Ocse ad aver registrato un valore negativo (-2,9%) nella variazione dei salari medi tra il 1990 e il 2020. Altrove, al contrario, la crescita è stata evidente: in Francia, ad esempio, nel medesimo arco di tempo, le retribuzioni sono aumentate del 31%, mentre in Germania del 33%.

Ad oggi, la maggior parte degli stipendi riesce a far fronte ai bisogni e ai consumi di una sola persona. Diverso il caso in cui si abbiano figli, si debba affittare o acquistare una casa o, ancora, si svolgano attività di cura. In queste situazioni, in assenza di una solida base patrimoniale di partenza, raggiungere una piena autonomia è ancora più faticoso.

Avere un lavoro dunque non equivale più alla garanzia di un’esistenza dignitosa: secondo le stime più recenti, a vivere in condizioni di povertà è un lavoratore su quattro, ma il rapporto cambia se si è donna (una lavoratrice su tre) o giovane (un lavoratore su due). Al riguardo, i dati riportati nel 49° Rapporto Svimez affermano che dei 760.000 nuovi poveri dovuti all’incremento dell’inflazione, oltre mezzo milione vive al Sud. A fare i conti con una condizione di precarietà persistente è, infatti, il 24% dei lavoratori nelle regioni meridionali del Paese, contro il 13% del Nord.

 

Le categorie più a rischio

 

Uno studio realizzato dal Forum Disuguaglianze Diversità intitolato “I lavoratori e le lavoratrici a rischio di bassi salari in Italia” ha messo in evidenza come un quarto dei lavoratori italiani sia a rischio povertà. Su 23 milioni di occupati, dunque, circa 5 milioni e ottocentomila sono in grande difficoltà.

Come dichiarato dall’economista Ocse Andrea Garnero su La Stampa, il lavoro povero origina dai bassi salari, ma anche dal fatto che molti dipendenti sono costretti a lavorare meno ore di quanto vorrebbero. Al riguardo, l’Italia è anche il paese Ocse con il dato più alto di part-time involontario – fenomeno che va a sommarsi a quello del precariato.

La diffusione di contratti pirata, inoltre, rischia di compromettere il godimento delle tutele essenziali riconosciute a lavoratori e lavoratrici. Sempre più datori di lavoro, infatti, puntano al ribasso, incentivando la stipula di contratti deboli dal punto di vista del riconoscimento degli straordinari e della tutela della malattia e della maternità.

Il rapporto del Forum Diseguaglianze Diversità sottolinea come l’incidenza dei bassi salari tra le donne sia molto più elevata che tra gli uomini, sia in termini di salario annuale che settimanale. Nonostante negli ultimi decenni l’occupazione femminile sia andata incontro ad una crescita, i contratti part-time penalizzano ancora la partecipazione delle donne al mercato del lavoro.

Quanto alle persone più giovani (tra i 16 e i 34 anni), i dati riportati indicano che queste ultime hanno un’incidenza di bassi salari quasi doppia rispetto alla popolazione di età più alta (tra i 50 e i 65 anni). Non stupisce dunque se una percentuale di laureati italiani, tra il 5% e l’8%, fugge altrove: a farne le spese è soprattutto il Sud, che perde in risorse e competenze, dal momento che il Nord può sempre contare su una migrazione interna (sono 116.000 i giovani che migrano verso Lombardia e Veneto).

 

Lavoro e futuro

 

Oggi il disagio che permea il mondo del lavoro più che tradursi in conflitto, come avveniva in passato, lascia il posto a comportamenti concludenti, rappresentati dal rifiuto o dall’abbandono: si parla al riguardo di quite quitting e great resignation.

Per far sì che il lavoro continui ad essere un valore fondante del Paese, è necessario rispondere alle molteplici esigenze che lo attraversano – giusta retribuzione, eguaglianza di genere, urgenza di manodopera, riconoscimento delle diversità, cambiamenti di vita, smaterializzazione dei compiti – e agire su più fronti.

Bisogna innanzitutto intervenire sulla ripresa dei salari e recuperare il ritardo che distanzia l’Italia dagli altri Paesi dell’Unione Europea, molti dei quali hanno adottato una retribuzione minima oraria. È il caso ad esempio della Germania dove il salario minimo, introdotto nel 2015, è oggi pari a 12 euro lordi, o di altri Paesi, come Francia, Olanda, Irlanda e Belgio, dove l’importo ammonta a circa 10 euro.

Al tempo stesso, occorre procedere a un riconoscimento contrattuale dei lavori di cura, di cui si fanno carico soprattutto le donne, e a un’organizzazione lavorativa che sia al passo con i tempi e con il mutato contesto post-pandemico. Non va, infine, tralasciato l’impatto dell’innovazione tecnologica, che sta già determinando la  digitalizzazione di molti settori, la richiesta di soft skills specifiche e la necessità di formazione continua.

Sono tanti i fattori che compongono il quadro e che impongono di guardare al settore dell’occupazione non solo da un punto di vista quantitativo, ma anche qualitativo: è dalla tutela della dignità di lavoratori e lavoratrici e dal coinvolgimento di tutte le parti in causa – imprese, sindacato e Stato – che passa la crescita effettiva.

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