Il grande abbandono. Gli YOLO. 

Lo hanno chiamato “Great Resignation”: è l’ultimo vero e proprio fenomeno sociale che vede sotto i riflettori l’abbandono volontario del posto di lavoro. 

In Italia solo nel primo trimestre oltre 307 mila persone hanno deciso di licenziarsi (Fonte INPS). Le dimissioni personali sono arrivate a rappresentare il 67% delle cessazioni totali dei rapporti di lavoro. Una tendenza cresciuta del +35% rispetto al 2021, di circa il 29% rispetto al 2019.  E non ha riguardato solo il nostro paese, ma tutte le principali economie mondiali.

Secondo un sondaggio della società di consulenza Bain & Company, infatti, il 58% dei lavoratori dopo il covid-19 ha ripensato all’equilibrio tra gli aspetti professionali e personali. Parecchi giovani, nello specifico, hanno preferito mollare tutto e cambiare, iniziare a viaggiare, dando più spazio agli amici, al tempo libero e alla famiglia. Sono nati gli YOLO: acronimo di You Only Live Once, “si vive una volta sola”.

 

Chi sono gli YOLO

Secondo un’indagine di AIDP (Associazione Italiana per la Direzione del Personale), su un campione di circa 600 aziende elaborate dal Centro Ricerche, la fascia d’età maggiormente coinvolta riguarda i 26-35enni  (70% del campione): l’abbandono è una scelta per lo più dei residenti nelle regioni del Nord Italia, (il 79%) per le mansioni impiegatizie (l’82%).

Quattro su dieci hanno firmato le dimissioni senza avere tra le mani un’altra offerta.   

 

Perché i giovani abbandonano il posto di lavoro 

Per la Generazione Z e i Millennial il successo professionale e la retribuzione sono importanti, ma non così tanto da giustificare l’idea che si possa continuare a lavorare in un ambiente considerato “ostile”. Per uno su quattro la ricerca di modalità di lavoro più “agili” è tra i motivi principali che portano alle dimissioni (fonte:Politecnico di Milano). Per l’83% le motivazioni vanno ricercate anche nel malessere emotivo, dato dall’assenza di riconoscimenti di merito e dal non sentirsi allineati ai valori dell’azienda che considerano fondamentale per la continuità lavorativa. 

La difficoltà, ad ogni modo, arriva anche da parte delle aziende stesse. Secondo l’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano il 44% delle intervistate confessa che la propria capacità di attrarre candidati è notevolmente diminuita e il 96% non riesce ad aggiornare il proprio know-how, nonostante la volontà di cambiare direzione.  

“Per migliorare benessere ed engagement bisogna agire in maniera prioritaria su due leve – afferma Martina Mauri, Direttrice dell’Osservatorio HR Innovation Practice -. Da una parte è necessario aumentare la flessibilità, intesa soprattutto come responsabilizzazione e autonomia della persona nella gestione delle proprie attività lavorative. Dall’altra creare un ambiente aperto e inclusivo, capace di valorizzare al meglio le competenze dei lavoratori, ma anche i loro interessi e passioni personali, a cui dare piena cittadinanza all’interno dei confini organizzativi”.

 

Sfida per le aziende? 

Una partita tutta da giocare, quindi, specie per quelle società che riconoscono il valore di avere in ufficio diverse generazioni a confronto.

Indispensabile, dunque, un processo di rifocalizzazione delle priorità per una cultura d’impresa più vicina alle necessità di chi ha scoperto i benefici collegati al flextime e flexplace e non vuole più tornare indietro.

“Occorre che inclusione non sia solo tema di compliance, ma anche questione economica, di innovazione, di crescita e valore sociale”, ricorda Cristiana Scelza, Presidente di Valore D.

Del resto, la pandemia e il remote working non hanno fatto altro che tamponare quel disagio avvertito dai più giovani negli anni. Ora chi si sta introducendo a pieno ritmo nel mondo del lavoro pretende che il tempo sia speso nel migliore dei modi. 

 

Le soluzioni per il benessere dei dipendenti 

Da qui la proposta di soluzioni ibride verso una progressiva riduzione degli orari.

Da parte delle imprese più strutturate, la possibilità di scegliere approcci intermedi, tra un lavoro 100% in presenza (Mainly Physical) e un lavoro 100% da remoto (Fully virtual):  l’Activity Based, il Club House, l’Hub & Spoke, ad esempio, mettono sul piatto un diverso work life balance e un maggior benessere per i dipendenti (grazie ad una suddivisione differente del timing casa/ufficio )
Obiettivo: attirare nuovi talenti e rivitalizzare i contesti di aggregazione e socializzazione in ufficio.  

Concedere maggiore tempo libero ai lavoratori – fino ad un giorno in più di riposo – del resto può dare anche dare vantaggi economici

Un sondaggio condotto dal Ministero del Lavoro di Tokyo su un campione di oltre 4 mila società giapponesi mette in evidenza che attualmente l’8,5% di queste ha concesso ai propri dipendenti più di due giorni liberi a settimana che avvantaggia i lavoratori su diversi fronti, come l’educazione dei figli, la cura dei familiari anziani e il volontariato. 

Molte si sono convinte dopo che l’iniziativa, partita nel 2019 da Microsoft Giappone, ha messo nero su bianco l’aumento della produttività del 40% e una riduzione dei consumi di energia elettrica del 23% e di carta del 59%.

Anche in Italia spronare alla “4 day week” potrebbe aggiustare diverse cose. Non è un caso che la settimana corta sia già partita ufficialmente in Belgio, Scozia e negli Emirati Arabi Uniti…

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