La lotta contro la diseguaglianza retributiva tra uomini e donne prosegue a rilento. Eppure, come riassume un interessante articolo del Corriere L’Economia rispetto alla questione della presenza femminile nei board (ampliatasi grazie alla legge Golfo-Mosca ma che coinvolge una ristretta élite femminile) quella del pay gap è una battaglia popolare.
Secondo il World Economic Forum, la disparità politica verrà colmata tra 95 anni, quella retributiva tra 257 anni. Il Global Gender Gap Report 2020, che vi abbiamo già presentato qui, segnala che l’Italia è scesa dal 70° al 76° posto mondiale nella classifica dei Paesi che attuano la parità salariale. Una donna italiana guadagna in media circa 17.900 euro l’anno rispetto ai 31.600 maschili e a fronte di molte più ore lavorate, perché viene pagata proporzionalmente meno e si prende carico di molto più lavoro non retribuito di un uomo (lavori domestici, cura dei figli, ecc.).
Qual è la causa?
Il rapporto dimostra che le spiegazioni tradizionali, come le differenze nei livelli di istruzione, hanno un impatto limitato rispetto ai divari retributivi di genere. Le donne risultano più istruite degli uomini in molti Paesi, ma guadagnano di meno, a parità di ruolo. I salari poi sono tendenzialmente più bassi nelle imprese e nelle aziende a prevalenza femminile.
Secondo i dati raccolti, inoltre, un fattore che pesa sul divario salariale è la maternità. Le lavoratrici madri hanno stipendi più bassi rispetto a quelle senza figli. Ciò può essere legato a una serie di cause, tra cui interruzioni o riduzioni dell’orario di lavoro, occupazione in mansioni più favorevoli agli impegni familiari, ma che comportano salari più bassi o stereotipi nelle decisioni relative agli avanzamenti di carriera
La situazione in Italia
In Italia, determinate politiche salariali e di organizzazione dei tempi di lavoro, insieme all’assenza di servizi complementari che permettano di conciliare le esigenze lavorative con quelle familiari, contribuiscono nella misura del 30% alle diseguaglianze di retribuzione nelle aziende. Tra le cause del differenziale retributivo c’è la minore capacità negoziale delle donne nei confronti del datore di lavoro, spesso dovuta alla necessità di barattare la flessibilità di orario con una retribuzione più bassa. Inoltre, le donne, indipendentemente dal fatto che abbiano o non abbiano figli, sono pagate meno degli uomini, perché molte aziende ritengono che possano, anche in proiezione, produrre potenzialmente meno a causa di ipotetiche assenze sul lavoro dovute a possibili responsabilità di cura della famiglia.
Il peso del part time
Anche i dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) del marzo scorso collocano l’Italia in una posizione apparentemente buona, ma solo se si considera il gap nella retribuzione oraria (5,6%). Un dato che relativo solo ai lavoratori full time, mentre l’Istat ci dice che 4 donne su 10 oggi lavorano part time. Inoltre il gender gap nel settore pubblico in Italia ammonterebbe al 4,1% ma nel privato si attesta al 20,7%.
Un esempio da seguire?
La legge islandese del 2018 che impone a istituzioni pubbliche e private, aziende, banche e a chi ha più di 25 dipendenti di assicurare la parità retributiva – ve ne ne abbiamo già parlato qui. Le multe arrivano a 450 euro. Giovedì scorso i deputati europei hanno chiesto alla Commissione disposizioni vincolanti sulla trasparenza delle retribuzioni e sul divario retributivo nel pubblico e nel privato. La Presidente Ursula von der Leyen ha promesso di fare della «parità di retribuzione» il principio fondante della nuova Strategia europea di genere che sarà presentata a marzo.
Valore D promuove la campagna per la parità salariale #nopaygap. Scopri di più!
Per consultare il Global Gender Gap Report 2020 del World Economic Forum nel dettaglio