Cuore business: un’intervista con Riccarda Zezza

È possibile riumanizzare il lavoro? Riscoprire la passione per quello che si fa e trarne benessere spirituale e fisico? In un mondo del lavoro sempre più asettico e caratterizzato da elevati livelli di stress e burnout, occorrono soluzioni che permettano alle persone di crescere liberamente ed esprimere i propri talenti.

Puntare al recupero della componente umana è uno dei rimedi proposti per migliorare l’esperienza di manager e risorse: ma in che modo le emozioni possono trovare spazio all’interno delle organizzazioni e trasformarsi in un valore?

Ne abbiamo parlato con Riccarda Zezza, autrice del libro “Cuore business. Per una nuova storia d’amore tra persone e lavoro” pubblicato lo scorso aprile da Il Sole 24 Ore – una lettura in quattro capitoli (stereotipi, emozioni, donne, leader) che, attraverso il rimando alle scienze sociali e comportamentali, offre suggerimenti pratici per tutte le persone interessate a lavorare sui pregiudizi, a rompere i tabù e a fare della diversità un motore di innovazione.

Per Zezza, imprenditrice premiata da Fortune Italia come “Most Influential and Innovative Woman”, la chiave è in un cambiamento profondo del sistema e nell’individuazione di strumenti nuovi attraverso cui riscrivere le regole della relazione tra le persone e il loro lavoro.

 

Identità, inclusione, leadership: come rimettere il cuore nel business

 

Un tema ricorrente nel tuo libro è quello delle dimensioni identitarie. Le molte dimensioni che compongono la nostra identità corrono le une accanto alle altre. È possibile “fare pace” con questa complessità e valorizzarla nei contesti lavorativi?

 

Oggi nessuno è solo una cosa: se il mio essere donna mi fa entrare nella minoranza di genere, il mio essere napoletana mi assimila al meridione, il mio essere madre ai temi di work-life balance, le condizioni di salute dei miei genitori fanno di me una caregiver e così via, in una stratificazione di caratteristiche che fanno di ognuno di noi una matrioska. E qui sta la magia: ad almeno uno di questi livelli, ho qualcosa in comune con chiunque altro intorno a me.

Si potrebbero chiamare “etichette trasversali”: quelle che uniscono invece di dividere.  Non nascondono l’unicità di ognuno, ma la compongono con le altre caratteristiche che le persone hanno, risultando in un’identità collettiva più forte perché costruita su ciò che ci rende simili nella diversità.

Guardati in questo modo, esistono territori comuni a tutte le categorie: non solo a quelle oggi definite “minoranza”, ma anche a quelle professionali (ruoli e obiettivi diversi, team diversi), a quelle che riguardano il grado manageriale e così via.

Segmentare, come avviene nell’attuale logica di inclusione, è più veloce e consente di avere a che fare con una parte semplificata della storia, escludendo di volta in volta tutte le altre, ma contribuendo al contempo a rafforzare i bias che si vorrebbe rompere. Mettere insieme è invece un gesto nuovo e, come tale, comporta la rottura di schemi e la gestione di prospettive inaspettate, di nuovi errori: meno veloce, più incerto, ma alla base di una mappa che reggerebbe più a lungo nel tempo, perché sarebbe abbastanza flessibile da comprendere, veramente, tutti.

 

La risposta sta quindi nel portare in ogni contesto “tutti noi stessi e noi stesse”? Oppure è necessario intervenire anche sui luoghi di lavoro? Che rapporto c’è tra le persone e gli spazi che abitano?

 

Come esseri umani, siamo diventati grandi e complessi, e nelle scatole delle vecchie definizioni di lavoro non ci stiamo più. E questa potrebbe essere una bella notizia, mentre invece ci sta facendo male. Ci sembra inevitabile indossare la maschera dell’animale del giorno e lasciare a casa tutto ciò che conta davvero. Ci sembra normale che avere un lavoro e dei figli generi conflitti, comporti dei problemi. Accettiamo ogni giorno che nell’ambiente di lavoro vi siano relazioni tossiche, piccole violenze, malesseri.

Le persone si sono nascoste dentro sé stesse e non sanno più come venirne fuori. Le organizzazioni non le vedono più, non sanno vederle. Vanno cambiati gli strumenti. Buttati via quelli vecchi, che ostruiscono la vista, va dato credito a conoscenze nuove, c’è da andare più in profondità per vedere meglio quello che c’è già. Va dato spazio a chi “rompe”: a chi suona diverso e quindi inadeguato, mettendo in crisi il sistema e rallentandolo per cambiarlo nel profondo.

Le persone non hanno bisogno di essere sempre supportate, formate, motivate, condotte. Se si accende la luce sulla loro volontà di prendersi cura di ciò che fanno, lavorare può tornare a essere un modo per prendersi cura del mondo.

 

Nel libro parli del tema della diversità e dell’inclusione, affermando che quest’ultima non innova ma normalizza. Quali sono i limiti di pensare all’inclusione come a una sorta di perimetro che delimita ciò che è normale da ciò che è diverso? Come si fa a includere tutte le diversità senza che questo si traduca in un atto di esclusione?

 

Tutti, in qualche momento della propria esistenza, ci sentiamo in qualche modo diversi e quindi esclusi. E sarebbero momenti preziosi, mentre invece impariamo a negarli o a catalogarli velocemente come fasi da dimenticare.

Se, nel tracciare un perimetro, non possiamo evitare l’esclusione, includere diventa un tagliar fuori più che un buttar dentro. Sono invitate a entrare alcune parti delle nostre storie, ma ad altre dobbiamo rinunciare: lasciarle altrove.

Sembra un problema inevitabile: ogni volta che si fa qualcosa per l’inclusione, si finisce con l’escludere qualcuno. Succede perché per includere occorre allargare i perimetri, ma per allargarli occorre prima vederli, e quindi vedere chi è dentro e chi è fuori e poi decidere da che parte estenderli.

E allora, come si fa?

Se le diversità sono una decina, e poi addirittura decine, e ognuna è per definizione un unicum: come si fa a includerle tutte senza che questo si trasformi, volta per volta, in un atto di esclusione di qualcosa? Invece che costruire nuovi recinti, l’inclusione potrebbe essere un’operazione di “zoom” che, come consente di vedere le persone in modo ravvicinato, permette anche di vederle anche in modo più “ampio”, più “da lontano”.

Se allargassimo lo zoom intorno a ogni categoria di diversità, vedremmo infatti, oltre alle differenze, le numerose altre caratteristiche di chi ne fa parte, beneficiando di una visione più ampia dell’intersezionalità.

 

Nel corso della loro vita, le persone sperimentano momenti di interruzione lavorativa. “I candidati che hanno un periodo di vuoto nel curriculum hanno il 45% di probabilità in meno di essere chiamati per un colloquio perché appaiono meno ambiziosi e meno competenti”.[1] Quanto invece i momenti di “assenza” dal lavoro dovuti ad esempio a un lutto, a una transizione lavorativa, all’attività di caregiving, possono essere importanti per lo sviluppo di competenze soft? E quanto queste sono rilevanti nel mondo del lavoro di oggi?

 

Il 70% dei genitori e dei caregiver ha migliorato le proprie capacità di leadership attraverso l’esperienza della pandemia: è un esempio, solo uno dei molti possibili, di come eventi inaspettati e travolgenti – proprio quelli che spesso spingono le persone a uscire dal mondo del lavoro – siano motori di sviluppo di competenze soft.

Competenze definite “morbide” oppure “durevoli”, o addirittura, più di recente, “power skills”: servono sempre perché rendono capaci di muoversi e lavorare insieme agli altri, di adattarsi e di risolvere problemi, di comprendere situazioni complesse… e anche di apprendere tutte le altre competenze.

Profughi, migranti, madri, caregiver, padri, persone che sono state malate: chi potrebbe dire che mentre erano altrove non abbiano appreso competenze chiave, di cui il mondo del lavoro oggi ha molto bisogno? Che cosa cambierebbe, se venisse accesa una luce diversa? Dai dati di Linkedin emerge che il 51% dei manager riconsidererebbe un candidato precedentemente rigettato se sapesse “perché” ha avuto quella pausa nel CV.

 

Le dimissioni dell’ex Prima Ministra neozelandese Jacinda Ardern hanno generato fermento e discussione, hanno infatti dato un forte segnale legittimando il fatto che si possa “non farcela più”. Nel suo annuncio ha auspicato l’apertura a nuovo modello di leadership. Come si può essere leader nuovi? La responsabilità di cambiare il sistema è tutta in capo al leader?

 

L’ultimo capitolo del libro si intitola proprio “Leader, che senso danno e perché non bastano”: un leader, infatti, non “basta” per cambiare il sistema.

Il fatto che Jacinda Ardern si sia dimessa da Prima Ministra mette in luce alcune caratteristiche dei ruoli di potere, che, come ha detto la leader annunciando le proprie dimissioni, lasciano “con il serbatoio vuoto”. La psicologia traduce questo stato con il termine “ego depletion”: un esaurimento del sé che deriva dal dover vestire a lungo dei panni non propri, facendo lo sforzo di adattare costantemente quel che si sente di essere a quel che si sente di dover essere.

Questo succede quando si porta qualche tipo di “diversità” nelle stanze del potere: lo sforzo di adattarsi alle convenzioni vigenti assorbe energie in modo continuativo e sotterraneo, depauperando le riserve già messe a dura prova da un ruolo di responsabilità.

Per esempio, se la sensibilità del leader proviene da determinate caratteristiche, come la capacità di cura, bisogna preservare lo spazio per l’esercizio di quella capacità di cura – che vuol dire lasciare al leader il tempo per amare. E’ solo uno dei molti cambiamenti che devono avvenire in modo radicale: cambiamenti di prospettiva, di valutazione, di logiche relazionali. E un leader non basta perché avvengano: se non si agisce sulle dinamiche intorno a lui/lei, ne verrà trasformato o alla fine, esaurito, ne uscirà.

 

 

[1] Accenture, Case Studies, Return to the workplace. https://www.accenture.com/it-it/case-studies/about/return-workplace

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