Il principio della parità di retribuzione a parità di lavoro è stato introdotto più di 60 anni fa dall’UE. Tuttavia ancora oggi le donne vengono pagate meno degli uomini in Europa: guadagnano infatti in media il 14,1% in meno all’ora rispetto ai colleghi uomini. Pochi giorni fa una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea ribadisce l’illegalità di questa discriminazione e riaccendendo i riflettori su questa tematica, come riporta un recente articolo di Alley Oop del Sole 24 Ore. La conseguenza non è di poco conto.
La sentenza infatti riconosce efficacia diretta a un precetto che da questo momento potrà essere invocato da chiunque, dinanzi a qualsiasi tribunale nazionale. Si potrà rivendicare a gran voce che a un lavoro di pari valore, svolto per lo stesso datore anche presso stabilimenti diversi, non dovrà corrispondere alcuna differenza di retribuzione. Si prova insomma a ribadire che la divergenza di genere è fuori legge. Si diffonde nelle istituzioni la consapevolezza che a dare origine alla discriminazione sono gli stereotipi: «è importante specificare che, anche quando si trova nel differenziale salariale una significativa componente discriminatoria, questa discriminazione non è necessariamente imputabile ad un comportamento intenzionale, deliberato, volto a nuocere del decisore, ma è, nella maggior parte dei casi, di natura statistica» si legge in una relazione del 4 marzo scorso a opera della Commissione permanente sui diritti delle donne e l’uguaglianza di genere.
Il divario retributivo nell’UE e l’obiettivo della trasparenza salariale
Un minore divario retributivo di genere non corrisponde necessariamente a una maggiore uguaglianza. In alcuni stati membri, divari retributivi più bassi, come quello italiano del 5% (ma nel settore privato è del 17%), tendono ad essere collegati ad una minore partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Per questo la strategia dell’Ue per la parità di genere 2020-2025 afferma che per eliminare il gender pay gap è necessario risolvere tutte le sue cause profonde: la minor partecipazione femminile al mercato del lavoro, il lavoro non retribuito, il maggior ricorso al part time e alle interruzioni di carriera, nonché la segregazione verticale e orizzontale basata su stereotipi e discriminazioni di genere.
Le differenze accumulate durante la vita lavorativa si riflettono anche nella pensione. Se si guarda al divario di genere nelle pensioni in UE si scoprono dati anche su quel versante tutt’altro che confortanti. Nel 2018 quel gap si attestava al 30%, con un range tra il tetto massimo del Lussemburgo al 43% e il minimo all’1% rappresentato ancora dall’Estonia.
Tra gli obiettivi spiccano le misure in materia di trasparenza salariale, perché la disponibilità di questi dati è necessaria per quantificare correttamente la componente discriminatoria del gender pay gap. Più precise sono le informazioni e meno numerosi sono gli errori causati dalla omissione di quelle caratteristiche produttive che possono spiegare le differenze di retribuzioni.
Il problema del divario salariale di genere resta e non è di facile soluzione, ma quelle istituzionali sono certamente sedi privilegiate per ottenere misure di parità e, in fondo, di equità.