In tempi di policrisi ridefinire il modello di leadership è fondamentale per apportare un reale cambiamento nella società, affrontare la complessità delle sfide globali e favorire la sostenibilità, l’equità e la collaborazione.
Ne abbiamo parlato con Gaia van der Esch, dirigente italo-olandese, autrice ed esperta di policy, attiva nel settore pubblico e no-profit, che nel 2021 ha ricoperto il ruolo di Sherpa del G20 EMPOWER sotto la Presidenza italiana del G20, sostenuta anche da Valore D, guidando l’Alleanza pubblico-privata per l’avanzamento della leadership femminile.
Nel suo libro “Leading Our Way: How Women Are Re-Defining Leadership”, Van der Esch mette in discussione il concetto tradizionale di leadership, ampliandone il significato e le caratteristiche attraverso il confronto con sette leader contemporanee: Christiana Figueres, Gitanjali Rao, Becky Sauerbrunn, Diane von Furtstenberg, Tawakkol Karman, Comfort Ero, Gloria Steinem.
La sfida di ogni leader: immaginare il presente e il futuro attraverso nuove prospettive
Prima di definire il nuovo modello di leadership che ciascuna e ciascuno di noi dovrebbe fare suo, tema del tuo libro, vogliamo parlare di “cosa non è leadership”?
G.v.d.E: Credo che la leadership non corrisponda a ciò che si trova scritto sulla porta di un ufficio o su una business card, non è il titolo che si ha, né l’autorità che si dimostra, ma è la capacità di generare un cambiamento.
Questo vuol dire che ci si può trovare di fronte a un grande CEO che in verità non è un leader, perché non sta apportando alcuna innovazione all’interno della sua organizzazione, così come dinanzi a un professionista junior che, nel suo piccolo, sta modificando alcune dinamiche che non funzionano all’interno di un team o di un’azienda, facendo realmente la differenza rispetto a chi possiede un super titolo.
Cosa dovremmo intendere quindi per leadership? Quali sono le caratteristiche di questo nuovo modello da te individuato?
G.v.d.E: Quando pensiamo alla leadership dovremmo fare riferimento alla capacità di portare un cambiamento in un modo che non sia necessariamente autoritario; dovremmo fare spazio a una leadership che incoraggi le persone a diventare motore del cambiamento, e questo a più livelli: a livello di organizzazione, di paese, o anche più semplicemente di comunità in cui si vive.
Quello che cerco di proporre in questo libro non è una nuova definizione rigida della leadership, ma l’espansione di quella attuale.
Nell’immaginario collettivo, il leader è spesso descritto come una persona che ha potere sulle persone, competitiva, focalizzata sui risultati e sul profitto. Al contrario io penso che la leadership sia qualcosa che in momenti specifici può necessitare di questi tratti, ma la maggior parte delle volte ha bisogno anche di altri elementi – ad oggi spesso sottovalutati: la capacità di collaborare, di pensare a lungo termine, di dimostrare empatia verso altri. La capacità di portare al tavolo quelle skill tipicamente represse nei modelli attuali e che, invece, sono vere abilità in grado di trasformare le aziende e, talvolta, Paesi interi, diventa cruciale nel mondo di oggi. Basta guardare, ad esempio, alle sfide globali che oggi stiamo affrontando in Italia e nel resto del mondo.
Qual è il ruolo dell’empatia in tutto ciò?
G.v.d.E: Sono convinta che la leadership senza empatia sia una leadership pericolosa: nel mondo d’oggi vediamo tantissimi leader, che siano capi di Stato o di aziende, che mancano di empatia, che competono invece di collaborare, che pensano ai loro interessi e non a quelli dell’umanità e delle prossime generazioni, e come risultato assistiamo a guerre, conflitti, cambiamento climatico, insomma alle policrisi globali. Ci troviamo ad affrontare queste situazioni proprio perché alla base vi è l’incapacità ai livelli più alti di capire le prospettive degli altri, di relazionarsi e creare un cambiamento che sia inclusivo della diversità e della complessità, che sono presenti sia all’interno delle nostre aziende sia all’interno dei Paesi in cui viviamo.
Ecco perché il ruolo dell’empatia è un elemento fondante della leadership, che non dovrebbe mai mancare nello skill set di un leader. L’empatia serve infatti a costruire una base comune da cui partire per capire dove si vuole andare, gli obiettivi su cui puntare, l’impatto che si vuole avere sulle generazioni future e come coinvolgere quelle attuali in questo processo di cambiamento.
Quale altra lezione ci possono insegnare le sette donne e role model d’eccezione che hai intervistato? C’è un aneddoto o una storia particolare che ti ha colpito?
G.v.d.E: Ci sono tantissimi aneddoti in questo libro che possono far riflettere su cos’è la leadership, su cosa vuol dire diventare leader, ma anche su quali sono le difficoltà della leadership, quali i fallimenti e gli insuccessi.
Un aneddoto che mi ha toccata particolarmente è quello di Christiana Figueres, la leader che ha guidato l’accordo del clima di Parigi del 2015. Figueres racconta di provenire da una famiglia patriarcale: suo padre era il presidente del Costa Rica e anche all’interno della famiglia era un uomo molto incentrato sull’essere forte, dare indicazioni chiare, essere autorevole e anche un po’ autoritario verso il mondo. Quello era il suo stile di leadership, che Christiana chiama nel libro “hard back”, e questo ha fatto sì che anche lei facesse di questa capacità di essere e apparire forte, autorevole e anche un po’ autoritaria, il suo stile.
Poi, nel mezzo delle negoziazioni di Parigi, Christiana ha avuto una crisi personale che l’ha portata a scoprire la sua parte più emotiva e sentimentale – che lei chiama il suo “soft front”. Ha iniziato a rendersi conto che era un elemento mancante nella sua vita personale ma anche nella sua leadership, e proprio integrando questo soft-front, fatto di empatia e di emozioni, anche nelle negoziazioni, ha potuto guidare e spingere un cambiamento storico tramite l’accordo sul clima più ambizioso che abbiamo raggiunto finora.
Questo aneddoto ci fa capire che per essere dei veri attori del cambiamento, per diventare dei veri leader, non bisogna essere l’uno o l’altro, non bisogna scegliere tra empatia (“soft front”) o autorevolezza (“hard back”): serve saperle gestire entrambe in modo strategico, riconoscendo quando è il momento giusto per servirsi dell’una o dell’altra. Empatia e autorevolezza sono dunque fattori che permettono di essere dei veri change-makers: ognuno di noi dovrebbe riflettere su com’è fatto il proprio carattere, su quali capacità ha sviluppato di più, per poi equilibrarle e usarle in modo efficace.
In Italia secondo te qual è la caratteristica tra le sette da te descritte che più manca nei ruoli apicali delle aziende? Su quale aspetto della leadership dobbiamo lavorare?
G.v.d.E: Di tutte le caratteristiche descritte nel libro (ottimismo, curiosità, coerenza, autenticità, libertà, integrità, circolarità), ce ne sono alcune su cui dobbiamo senz’altro accelerare, perché la cultura italiana è ancora particolarmente gerarchica.
Quando mi trovo in Italia, spesso mi accorgo di essere vista come una donna relativamente giovane che dice quello che pensa in modo molto diretto. Questo atteggiamento è tutt’oggi considerato inusuale, perché è ancora molto diffusa la convinzione che l’uomo di una certa età abbia anche una determinata autorità e che una donna giovane debba essere molto più diplomatica nel porsi o nell’ambire a un certo ruolo o una certa funzione perché insomma dovrebbe stare al proprio posto.
Adesso sto un po’ esagerando proprio per far capire il punto, però da italiana che lavora soprattutto all’estero ma che si interfaccia ancora molto con l’Italia, questa è una sensazione che purtroppo avverto ancora molto.
Quindi, tra tutte le caratteristiche evidenziate nel libro – forse potrà sembrare un po’ contro intuitivo visto che noi italiani siamo “stereotipati” come persone molto spontanee – la cosa su cui secondo me bisogna lavorare di più in Italia è l’autenticità, cioè la capacità di accettare che le persone portino al tavolo della negoziazione, al tavolo delle decisioni o all’interno della propria azienda, se stesse con tutti i propri aspetti, con tutti i propri punti di forza ma anche di vulnerabilità e fare in modo che questo approccio venga valorizzato a tutti i livelli.
Avere la possibilità e la libertà di essere come si è, di porre domande, di proporre idee, oggi non dovrebbe essere riservato solo a chi è a un livello apicale, ma a tutte le persone.
È solo in questo modo che riusciremo veramente a sbloccare la cultura gerarchica e un po’ vecchio stile che caratterizza l’Italia, avvicinandola invece a un tipo di cultura più dinamica dove il confronto e la diversità di opinioni, età, genere, esperienze è un punto di forza, anche all’interno delle aziende. È la potenza della diversità di cui si occupa Valore D, che in Italia spesso non è ancora vista realmente come un fattore positivo ma piuttosto come qualcosa da schiacciare sempre verso il basso.
Il tema della libertà di esplorare di sbagliare, di provare diverse strade, ricorre spesso nel tuo libro, soprattutto nell’intervista a Gitanjali Rao… Come si lega tutto ciò con il concetto di leadership?
G.v.d.E: Poter fallire, provare cose nuove e cambiare percorso è intrinsecamente legato al progresso personale e quindi alla leadership. Ho notato, tuttavia, che questo è un tema ancora poco recepito in Italia rispetto a tanti altri Paesi dove ho lavorato.
Imparare vuol dire buttarsi, apprendere tantissimo anche e soprattutto dai propri errori, e vuol dire sapere che si può fallire senza per questo essere visti come dei falliti a vita: dopo il fallimento si ricomincia, si continua, si matura e si diventa dei leader o dei professionisti migliori rispetto a prima.
Non dico che il fallimento sia facile da digerire perché non lo è mai, però è uno step necessario per sviluppare un proprio stile di leadership che funzioni, che parli ad altri e che li incoraggi a farsi avanti, a prendere iniziativa, a buttarsi a loro volta. La cultura del fallimento e dell’apprendimento permette innovazione, cambiamento.
Quando si è un CEO o un grande manager che appare come una persona infallibile, che sa tutto e ha tutte le risposte – cosa che sappiamo non essere possibile –, che centralizza il potere e le decisioni, che ha potere “sopra” gli altri e non potere “con” gli altri, non si fa altro che contribuire a creare una cultura della leadership vecchio stile, e a creare una distanza abissale con chi si ha intorno, soprattutto al lavoro. Il fallimento e il coraggio di sperimentare, innovare, sono invece un’arma molto potente per imparare, per diventare leader accessibili e molto più sofisticati, aperti a idee diverse, all’innovazione, a modi di lavorare eterogenei che – come dimostrato da varie ricerche – portano spesso a risultati e performance migliore dei team e delle aziende, oltre che a creare un ambiente di lavoro più dinamico, più moderno e più inclusivo, che sono caratteristiche molto importanti nella vita professionale della mia generazione (i millenials) e di quelle più giovani.
Quale messaggio rivolgeresti alle nuove generazioni di leader?
G.v.d.E: Ho scritto questo libro come una executive, una leader di una grande organizzazione che sta cercando di portare cambiamento, ma allo stesso tempo l’ho scritto pensando davvero alla me studentessa e professionista agli inizi di carriera. So bene che in quei momenti avrei voluto confrontarmi con dei modelli di leadership diversi ma non ne vedevo. Quindi, quando anche io ho dovuto imparare a gestire i team, a navigare in ruoli executive nelle organizzazioni, mi sono appiattita sul modello di leadership che mi veniva dato, che era un modello autoritario, basato sulla competizione, sulla capacità di imporsi e avere le spalle larghe, piuttosto che su un modello focalizzato su come portare il meglio all’interno di un’organizzazione, su come tirare fuori il meglio dagli altri, su come collaborare, come non aver paura di essere empatica in certe situazioni perché, come abbiamo detto, l’empatia è uno strumento, un punto di forza.
Quindi, questo è un libro che ho scritto anche con le persone più giovani in mente, perché possano loro stesse scoprire nuovi modelli di leadership da cui trarre inspirazione, per poi diventare portatrici di una leadership empatica, coraggiosa, focalizzata sull’impatto più che sul profitto. E direi ai giovani di oggi di ricordarsi sempre che essere leader non è il titolo sulla business card, ma portare un cambiamento. E loro hanno tutto il potere e le idee per essere questo cambiamento di cui abbiamo tanto bisogno, quindi di non esitare a buttarsi, a farsi sentire, a portare nuove idee, a creare diversità, e a diventare loro stessi portatori di una nuova leadership – capace di risolvere le sfide globali che stiamo affrontando.