Giornata internazionale contro l’omolesbobitransfobia: riflettere sulle parole per cambiare il mondo 

*questo contenuto è stato scritto per Valore D da Alice Orrù, copywriter e content designer specializzata nel linguaggio inclusivo e accessibile, in occasione della Giornata internazionale contro l’omofobia, la transfobia e la bifobia.

Il 17 maggio si celebra la Giornata internazionale contro l’omofobia, la transfobia e la bifobia, o – per dirla con l’acronimo che vedremo circolare tra media e social – IDAHOBIT, da International Day Against Homophobia, Transphobia, and Biphobia: otto lettere che riassumono l’estensione dei crimini d’odio nei confronti di tutte le persone che si riconoscono nella sigla LGBTQIAP+.

L’obiettivo della Giornata, istituita nel 2004 e celebrata in più di 130 Paesi nel mondo, è proprio questo: richiamare l’attenzione sulle violenze e le discriminazioni subite da persone lesbiche, gay, bisessuali, trans, intersessuali e da tutte coloro che vivono orientamenti relazionali, identità o espressioni di genere considerate “dissidenti”, queer.

La scelta del 17 maggio non è casuale: questa è la data in cui, nel 1990, l’Organizzazione Mondiale della Sanità decise di eliminare l’omosessualità dalla lista dei disturbi mentali.

Sono passati trentaquattro anni, eppure è ancora necessario richiamare l’attenzione della politica nazionale e regionale, dei media, dell’opinione pubblica e delle aziende sull’allarmante rischio di violenza e discriminazioni nei confronti delle persone della comunità LGBTQIAP+.

Un’idea per celebrare il 17 maggio: ripensare le parole

Il dizionario Treccani definisce l’omolesbobitransfobia come l’avversione ossessiva per gli uomini gay, le donne lesbiche, le persone bisessuali e transgender e l’omosessualità maschile e femminile, la bisessualità e la transessualità.

Il suffisso -fobia richiama istantaneamente una terminologia medica, una condizione di paura irrazionale definita. E infatti, racconta Simone Alliva in “Caccia all’omo. Viaggio nel paese dell’omofobia” (Fandango Libri, 2020):

«Il termine omofobia è stato coniato nel 1972 dallo psicologo americano George Weinberg per descrivere la paura irrazionale di trovarsi in luoghi chiusi con persone omosessuali e le reazioni di ansia, disgusto, avversione che alcuni eterosessuali possono provare […] Il concetto di fobia fa evidente riferimento a cause psicologiche individuali e non prende in considerazione le costituenti sociali e culturali di questi modi di “odiare in prima persona plurale”.
Le persone omofobe, invece, nella maggior parte dei casi, si sentono nel giusto e non vivono la propria fobia con disagio, né avvertono il bisogno di liberarsene. Sono infatti proprio le dimensioni sociali dell’omofobia a “legittimare” tale atteggiamento negativo, spesso addirittura “dall’alto” come nel caso di discriminazioni e svalutazioni che provengono da istituzioni politiche e religiose.»

Oggi leggeremo sui media dati e statistiche che ci ricordano quanto l’omolesbobitransfobia sia una piaga ancora lungi dall’essere debellata, sia in Italia che nel mondo. Il rapporto sull’omofobia in Italia, in effetti, ci restituisce una mappa desolante, e che oltretutto si limita ai soli episodi registrati, lasciando in ombra tutte le violenze e le discriminazioni quotidiane che non arrivano a essere denunciate.

Ripartire dalle parole

Quali misure possiamo mettere in atto, nella vita quotidiana, per contrastare l’omolesbobitransfobia?

Parlarne nella nostra cerchia familiare, amicale e professionale, senza dubbio.
Chiedere interventi politici efficaci, che proteggano le persone della comunità LGBTQIAP+ e che ne riconoscano i diritti civili, anche.

Ma da persona che lavora con le parole, credo fortemente che un’immediata leva di cambio a nostra disposizione sia ragionare sul modo in cui parliamo dell’eterogeneità di vissuti, identità, sentimenti e relazioni delle persone che ci circondano.

E quindi, in una giornata in cui non si lesinano dati e numeri per fotografare un fenomeno grave come quello dell’omolesbobitransfobia, ti invito a ragionare sulle parole e su come possiamo imparare a gestirle in modo più rispettoso, partendo da un assunto di base: per comunicare in modo rispettoso, in qualsiasi ambito, l’ascolto è fondamentale[1] [2] . Perché le parole hanno un peso: possono creare, confermare o confutare visioni del mondo; allargare o sminuire idee e vissuti; generare un clima d’odio oppure disinnescarlo.

Chi c’è dentro l’acronimo LGBTQIAP+?

LGBTQIAP+ è un acronimo liquido, in continua evoluzione: questa aggiunta di lettere con il passare del tempo ci indica che la comunità LGBTQIAP+ non è un gruppo chiuso di persone categorizzabili in rigidi faldoni da tenere sulla libreria.

Persone Lesbiche, Gay, Bisessuali, Trans, Queer, Intersessuali, Asessuali, Pansessuali, e molto altro (+): è un caleidoscopio di identità che include vissuti eterogenei, plurali, con una lunga storia di oppressione ma anche gioiosa rivendicazione alle spalle. (Nell’appendice all’articolo trovi una spiegazione di ogni identità rappresentata in questa sigla.)

Sono tutte le persone che, per il loro orientamento sessuale, la loro identità di genere o la loro espressione di genere, non aderiscono agli standard di una società costruita sulle basi dell’eterosessualità e della binarietà uomo/donna.

Cosa significa queer?

È passato appena un anno da quando la parola queer è diventata mainstream anche nel dibattito italiano. Molto si deve alla scrittrice Michela Murgia che, pochi mesi prima della sua morte, ha deciso di parlare della sua famiglia queer. Ha dato così il via a una conversazione plurale, stratificata, e anche criticata, certo; ma il fatto che abbia avuto così grande risonanza, ha fatto sentire molte persone viste e rappresentate nella loro personale forma di vivere le relazioni e la famiglia.

La Q dell’acronimo LGBTQIAP+ sta per queer. È una parola inglese che significa “strano”, “insolito”, e ha una lunga storia: nel mondo anglosassone di fine XIX secolo si usava come insulto per gli uomini attratti da altri uomini.

Con il fermentare del movimento per i diritti delle persone omosessuali negli anni Settanta e Ottanta, però, queer inizia ad assumere anche un carattere affermativo e di rivendicazione: è a partire da questo momento che una parte della comunità LGBT di allora se ne riappropria in modo positivo.

Ancora oggi, molte persone gay, lesbiche e bisessuali anglosassoni, che hanno subito discriminazioni e violenze tra gli anni Settanta e Novanta, non vedono di buon occhio la riappropriazione in chiave positiva della parola queer.

Eppure, soprattutto per le nuove generazioni, queer è diventata una parola accogliente e variegata, dove rientra con determinazione l’identità critica e politica di chi sfida le idee normative sulla sessualità e sul genere.

Cosa significa non binary?

Dentro lo spettro della queerness ci sono anche le persone non binary o non binarie: sono coloro che rifiutano il binarismo di genere e non si identificano esclusivamente come uomo o donna. La non binarietà è uno spettro, e per questo non esiste un modo unico, predefinito, di essere non binary: le persone non binarie possono ritenere che il loro genere si collochi tra i due generi binari tradizionali, o che comprenda entrambi i generi, o nessuno dei due. Per saperne di più, esiste la NonBinary.wiki che spiega nel dettaglio tutte le sfumature della non binarietà.

Negli ultimi tempi, si è parlato più spesso di persone non binarie – soprattutto nella stampa anglosassone – in relazione alla loro scelta di usare pronomi non binari (come il singular they inglese): una sfida non indifferente per la lingua italiana, che al momento non include un pronome neutro, né femminile né maschile (e no, usare “loro”, come traduzione letterale di they, non è corretto!).

Rivendicare le parole

Sono davvero tantissime le identità che rientrano in questa grande collettività che, come ricorda Antonia Caruso in “LGBTQIA+. Mantenere la complessità” (Eris, 2022), non è una singola comunità:

«Esistono tante comunità che occasionalmente possono formarne una, come un organismo che si espande e si contrae […] Esistono tante comunità che hanno valori diversi e che hanno spesso come unico denominatore solo l’essere all’interno de La Sigla.»

È interessante notare che molte delle parole che compongono l’acronimo LGBTQIAP+ hanno una storia d’uso omofobico o transfobico.

A mio parere questo è uno degli aspetti più affascinanti della comunicazione in ambito LGBTQIAP+. La comunità queer, in Italia e nel resto del mondo, non solo porta avanti fondamentali battaglie civili e sociali, ma ha anche un rapporto speciale, rivendicativo, con la lingua. Sta liberando le parole dall’odio e dal disprezzo che le connotavano per trasformarle in strumenti di consapevolezza.

Abbiamo davvero bisogno di tante etichette?

La mia risposta, rapida e concisa, è sì, abbiamo ancora bisogno di etichette.

Anche questa è una domanda molto frequente, soprattutto da parte di chi non ha mai sentito l’esigenza di trovare un nome al proprio sentire/essere perché – semplicemente – lo ritrova rappresentato dappertutto (e su questo concetto tornerò tra poco).

Dare nomi alle cose è un atto politico, qualcosa che da sempre definisce i limiti tra la realtà che viviamo e il modo in cui la comunichiamo.

Nominiamo per rendere qualcosa reale, concreto, parte della nostra vita quotidiana. Una persona/sentimento/relazione senza nome può esistere, certo, ma è molto più probabile che soffra dietro il tremore dell’incertezza, dietro la paura di scomparire o di diventare un tabù.

E questo è particolarmente vero quando si parla di identità: essere nominati, far parte del discorso, e quindi delle politiche pubbliche, della vita civile, è fondamentale per il nostro riconoscimento e ruolo attivo nella società.

Smascherare l’eteronormatività e le sue conseguenze

C’è un punto che secondo me è cruciale per cambiare il modo in cui parliamo della comunità e dei temi LGBTQIAP+: smascherare l’eteronormatività, e renderci conto di quanto questo costrutto sia presente nelle nostre parole ed espressioni comuni.

Per spiegarmi meglio, parto dal significato di eteronormatività.

Il dizionario Merriam-Webster, la definisce come «l’atteggiamento o la convinzione secondo cui l’eterosessualità sia l’unica espressione normale e naturale della sessualità». Una definizione chiara, ma un tantino riduttiva per descrivere il contesto in cui viviamo, impregnato di eteronormatività a vari livelli.

Cos’è l’eteronormatività

Trovo molto efficace la spiegazione che ne dà Meg-John Barker, attivista con un PhD in psicologia e firma di un fantastico manuale illustrato sulla storia della teoria queer (“Queer: Una storia per immagini”, Fandango Libri, 2021).

Traduco una parte dell’articolo What’s wrong with heteronormativity (“Cosa c’è di sbagliato nell’eteronormatività”), pubblicato qualche tempo fa sul suo blog:

«La gente di solito non ha problemi nel vedere una persona che indossa una fede sul posto di lavoro, che ha una foto del suo partner eterosessuale sulla scrivania, o che parla di quello che ha fatto con la sua partner eterosessuale durante il weekend.
Il fatto che invece potrebbe esser malvisto indossare abiti o avere conversazioni che rivelino che una persona è lesbica, gay o bisessuale […] è eteronormativo, perché le cose che sono contestate, o considerate strane, per loro sono invece completamente accettate quando si parla di persone eterosessuali.
[…]
Di solito si presume, fino a prova contraria, che le persone siano eterosessuali (e interessate a pratiche sessuali eterosessuali). Questo è un altro esempio di eteronormatività.
Le persone che non sono eterosessuali (o che hanno relazioni non monogame, o praticano una sessualità kinky o al di fuori dell’eteronorma) devono decidere se fare coming out o no, mentre le persone eteronormative sanno sempre che la gente farà le giuste supposizioni sulla loro sessualità, sulle loro relazioni, sul loro genere, ecc.»

Il significato di eteronormatività ha quindi un significato ampio, che non ha solo a che fare con l’orientamento sessuale, ma include tutto quel sistema di valori, pratiche, convenzioni che — per abitudine, pigrizia, ignoranza — la società considera “normale”, la base data per scontata.

Parlare di eteronormatività anche nell’ambito della comunicazione è molto utile per scardinare certi pregiudizi (anche inconsci) nei confronti delle persone LGBTQIAP+.

L’omolesbobitransfobia è infatti solo la punta dell’icerberg della violenza; prima di arrivare a quel vertice ci sono molteplici micro e macro aggressioni che feriscono le persone queer.

Il linguaggio dell’eteronormatività: alcuni esempi

Ci sarebbero innumerevoli esempi di discriminazione basata sull’eteronormatività, ma questi sono i primi che mi vengono in mente:

  1. Presumere l’orientamento sessuale o l’identità di genere di una persona sulla base di stereotipi o dell’apparenza. Pensa per esempio al classico stereotipo secondo cui le donne lesbiche sono “mascoline” e gli uomini gay “effeminati”. 
  2. Escludere o ignorare le persone LGBTQIAP+ in politiche, leggi e istituzioni che riconoscono solo le relazioni eterosessuali e le identità cisgender.
  3. Trattare in modo preferenziale le coppie eterosessuali rispetto a quelle omosessuali. Pensa a tutti i casi in cui, quando si parla di famiglie, si citano solo quelle in cui esistono una mamma e un papà.
  4. Rappresentare le relazioni eterosessuali come ideali, il “default”, nei media, nell’istruzione e nella cultura.
  5. Dare per scontato che le persone eterosessuali possono parlare apertamente delle loro relazioni sul posto di lavoro senza timore, ma non le persone LGBTQIAP+. Secondo un rapporto ISTAT del 2022, al 61% delle persone LGBTQIAP+ in Italia è capitato di dover nascondere questo aspetto della propria vita.
  6. Discriminare le persone transgender nell’accesso a spazi separati per genere, come i bagni, che corrispondono alla loro identità di genere.
  7. Fare alle persone LGBTQIAP+ domande o commenti inappropriati su relazioni, vita sessuale o espressione di genere, che mai verrebbero rivolte a persone etero e cisgender.
  8.  
  9.  

Questa lista, senza dubbio parziale, evidenzia come vivere in un mondo costruito a misura di orientamento eterosessuale e identità cisgender è un enorme privilegio, se sei una persona che si sente rappresentata in queste categorie.

Se l’idea dell’esistenza di un privilegio etero ti fa storcere il naso, puoi provare a fare il “questionario sull’eterosessualità”, attribuito a Martin Rochlin e risalente al 1977: una ventina di domande formulate con un chiaro pregiudizio “eterofobico” (sì, hai letto bene). Il questionario rivisita le domande che vengono spesso fatte a persone gay, lesbiche o bisessuali. Se sei eterosessuale, prova a rispondere e analizza il modo in cui le domande ti fanno sentire.

C’è poi una lista molto interessante di esempi che descrivono la portata dell’eteronormatività nella nostra vita. L’ha ideata Sam Killermann, autore e attivista per i diritti LGBTQIAP+; esiste anche la checklist sul privilegio cis-genere.

Smontare il monolite dell’eteronormatività ci aiuta a uscire dalla logica polarizzante del “noi vs. loro” che spesso riempie la bocca di coloro che si considerano maggioranza. È la stessa polarizzazione che alimenta omolesbofobia, bifobia e transfobia.

In più, i dettami dell’eteronormatività finiscono per essere un problema anche per coloro che si considerano parte della “maggioranza eteronormata”: il pensiero eteronormativo può diventare una gabbia di infelicità ogni volta che i loro desideri e le loro aspirazioni vengono percepite come “fuori dalla norma”.

Sfidare l’idea dell’eteronormatività non significa contestare l’eterosessualità. Molte persone eterosessuali non sono eteronormative perché magari abbracciano sessualità, identità di genere o forme relazionali diverse dalla “norma”.

Questo concetto ci mette però nella condizione di riflettere sul grande elefante nella stanza che condiziona non solo una gran parte della vita in società e delle scelte politiche, ma anche il nostro modo di comunicare: il fatto che tutto quello che non è eterosessuale e cisgender sia “diverso”, e dunque, in qualche modo, sbagliato.
Oggi è la giornata giusta per iniziare a scardinare questo paradigma.


Appendice:

 

1. Se non conosci il significato delle identità rappresentate nell’acronimo LGBTQIAP+, ecco un piccolo “bignami”:

    • Lesbiche: donne che provano attrazione fisica, sessuale, romantica o emotiva verso altre donne.
    • Gay: uomini che provano attrazione fisica, sessuale, romantica o emotiva verso altri uomini.
    • Bisessuali: persone che provano attrazione fisica, sessuale, romantica o emotiva verso due o più generi.
    • Transgenere o transgender: persone che non si identificano con lo stesso genere atteso alla nascita. (Il contrario di transgender è cisgender, attributo per le persone che si identificano con il genere atteso alla nascita.)
    • Queer: termine ombrello che identifica tutti gli orientamenti sessuali o le identità di genere che non si conformano all’eteronormatività o alla cisessualità.
    • Intersessuali (o Intersex): termine ombrello per identificare le persone il cui corpo non è conforme alle combinazioni binarie (maschile o femminile).
    • Asessuali (e Aromantiche): persone che non provano attrazione sessuale verso altre persone (asessuali) o che non provano attrazione romantica (aromantiche).
    • Pansessuali: persone che possono provano attrazione fisica, sessuale, romantica o emotiva verso persone di qualsiasi genere.
    • …e molte altre (ecco il perché del + finale)

 

2. L’acronimo LGBTQIAP+ è un registro della storia del movimento e di una lingua che cambia. L’origine “ufficiale” del movimento (che già esisteva e si attivava con manifestazioni civili organizzate dal movimento omofilo) si fa risalire al 28 giugno 1969, data della rivolta dello Stonewall, un bar gay di New York che fu attaccato dalla polizia.

Anche l’Italia ha le sue pietre miliari che segnano la vita dell’acronimo. Negli anni Settanta, in Italia si respira un fonte vento di attivismo per i diritti civili: nasce il primo movimento gay, FUORI! (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano). Da quella rivista nasce Lambda, altra pubblicazione gestita insieme da uomini gay e donne lesbiche. Se fino a quel momento l’attrazione per persone dello stesso genere veniva nominata generalmente come omosessuale (con radici nel lessico medico-scientifico), nel linguaggio comune iniziano a fare capolino le parole gay e lesbica. È l’origine dell’acronimo: LG.

Negli anni Ottanta, l’acronimo si allarga a LGB per includere le persone bisessuali che provano attrazione sessuale o romantica sia per uomini che per donne.

Negli anni Novanta, inizia a comparire anche la dicitura LGBT, per accogliere il movimento transgender promosso dalle persone trans. Nella legislazione italiana, le persone trans comparvero per la prima (e finora ultima) volta con la legge 164 del 1982, che introdusse la possibilità di riassegnazione di sesso e genere anagrafici.

Il movimento intersessuale (o intersex) arriva con la I nell’acronimo nel corso degli anni Duemila. Più di recente, sono arrivate a completare l’acronimo LGBTQIAP+ le soggettività asessuali, demisessuali, pansessuali e le persone non binarie.


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