*questo contenuto è stato scritto per Valore D da Pietro Turano, attore, autore e attivista LGBTQIA+, oltre che vicepresidente di Arcigay Roma.
La casa dove sono cresciuto con la mia famiglia era molto bella ma sicuramente non grande, così io ho sempre condiviso la stanza con mia sorella maggiore, L. Per molto tempo “la cameretta” è stata organizzata con un letto a castello in legno plasticoso colorato, che includeva un microscopico armadio cubico dentro il quale amavo raggomitolarmi e nascondermi in silenzio, anche per ore. Non so se questa sia un’esperienza comune o se il fatto che io avessi quest’abitudine e che l’espressione “coming out” sia proprio l’abbreviazione di “coming out of the closet”, ovvero “uscire fuori dall’armadio”, sia una casualità. In ogni caso trovo che sia un’immagine molto evocativa, che restituisce bene l’idea di come si viva prima e dopo aver varcato una certa soglia come quella “dell’armadio”. D’altronde il coming out può sembrare una questione solo “personale”, circoscritta ad un’esigenza contingente dell’ego, che impatta sulla vita e le circostanze di chi lo vive; ma è molto di più anche da un punto di vista collettivo e politico oltre che individuale.
Nella nostra società le condizioni identitarie diverse dall’eterosessualità e dalla cis-generità sono percepite collettivamente, anche se spesso del tutto inconsapevolmente, come “deviazioni” dalla norma: in poche parole siamo tuttə etero e cisgender fino a prova contraria. Significa che nel contesto in cui viviamo viene di base dato per scontato che siamo tuttə natə “normali” allo stesso modo, avendo ricevuto la stessa educazione affettiva e sessuale di base, fondata su modelli di genere e di relazione “standard” che non prevedono differenze rispetto al binario che ben conosciamo. Il mondo ci dice prima chi dobbiamo essere e come esserlo, pre-determinandoci, poi chi siamo, sovra-determinandoci. In questo contesto il peso della “normatività” è sempre più ingombrante e specularmente si fa sempre più ingombrante anche il peso della propria differenza, a partire dal momento stesso in cui ne diventiamo consapevoli. Il coming out rappresenta quell’azione che possiamo scegliere come soggetti autonomi per auto-determinarci, ribaltando il piano e riprendendo il ruolo di attori protagonisti della nostra storia. Da questo punto di vista rappresenta un’importante opportunità di liberazione individuale, ma proprio perché la narrazione dominante non prevede di per sé la differenza, il coming out di una persona acquisisce allora automaticamente anche un potere collettivo e politico, perché si fa testimonianza dell’alterità imprevista. Un coming out ne rende possibili altri cento o mille e in ogni coming out risuonano tutti i coming out del passato e del futuro: questo significa potersi riconoscere come comunità, popolazione di un non-luogo potenzialmente sconfinato. Essere persone queer è per definizione, in un certo senso, essere dissidenti apolidi e, autodeterminarsi, attraverso il coming out significa specificare la propria diversità dandogli senso pratico, corpo, quantità.
La storia delle comunità queer è, in effetti, una storia imprescindibile dalla dimensione corporale, perché è attraverso l’affermazione di sé come “dato di fatto” tangibile e innegabile che si afferma innegabilmente la propria esistenza: “se esisto e se da ora definisco io di cosa sia fatta la mia esistenza, non puoi fingere di non vedermi”. Così, la soglia di cui scrivevo poco fa rappresenta il confine, la frontiera, e il coming out rappresenta il suo attraversamento fisico, al di là dello stato di clandestinità. Nell’ottica in cui se si parla di coming out si sta inevitabilmente parlando anche di delegittimazione di una narrazione parziale ed escludente, che avviene attraverso i corpi, il percorso di conoscenza di sé è da intendere come un modo per “misurarsi” nel corpo e poi nel mondo. Chiudermi nell’armadio da bambino era, contemporaneamente, sottrarmi al corpo e al mondo ma anche tracciare i confini del mondo per scoprire i limiti del corpo: nascondersi e ritirarsi, ma anche esporsi a sé e prendere le misure. Per questo, nel comfort del buio silenzioso del mio armadio, ho raccolto le energie e la consapevolezza necessaria per conoscermi meglio e capire quanto quello spazio stesse diventando troppo stretto, senza la pressione di qualcuno fuori che bussasse per dirmi quando, dove, come, se uscire fuori.
Se allora è vero che il coming out è capace di produrre un circolo virtuoso collettivo, è anche una responsabilità collettiva: forzare un coming out significa aver interiorizzato e replicare la violenza sociale subita.
Per tutte queste ragioni, parlare di coming out è importante non solo per quello che rappresenta in modo diretto, ma anche per quello che rappresenta come concetto, perché è la testimonianza di una postura: obliqua, trasversale, sperimentale, aperta. Il fatto che esista il concetto di coming out e che possa essere celebrato è un invito a interrogarsi e scoprirsi, amarsi, pretendere rispetto e dignità, spazio, tempo, silenzio. Parlare di coming out e celebrarlo non significa però parlare solo del suo valore intrinseco, ma anche farne emergere le complessità, il quadro sociale in cui si inserisce, significa interrogarsi anche sul mondo circostante, sul tempo e lo spazio altrui oltre che i propri, rispettare il silenzio e la voce altrui oltre che la propria, amare e rispettare le altre persone oltre che sé, non accontentarsi.
Ma in un mondo che corre veloce, sempre in un’unica direzione, e che ti riporta sempre sullo stesso binario, non ammettendo deragliamenti, allenare questo muscolo è un esercizio e per questo i coming out sono sempre plurali, anche se li diciamo al singolare: in famiglia, con le persone amiche, a scuola, sul lavoro. Uno, due, tre, dieci, cento, mille coming out ogni giorno. Allenare questo muscolo significa anche svelare, e possibilmente mettere in discussione, le dinamiche di potere che orientano ogni nostro rapporto.
Per questo nel mondo del lavoro, ad esempio, è importante stimolare e promuovere contesti protetti, inclusivi, consapevoli, accessibili e friendly, perché il lavoro oltre ad essere lo spazio dove – dopo la scuola – spendiamo maggiormente le nostre energie, tempo, e costruiamo la nostra esistenza pubblica, è l’esempio massimo di spazio in cui si esprimono le dinamiche di potere e il potere, per definizione, colpisce prima di tutto chi si trova più ai margini, secondo un principio banale di autoconservazione.
Perciò: buon Coming Out Day, viva gli armadi chiusi che si aprono all’improvviso, i silenzi che si trasformano in grida, l’invisibilità che si materializza in segno, il pensiero che si fa azione, domanda che si fa corpo.