L’8 marzo è la Giornata Internazionale dei Diritti delle Donne, una data simbolo nel percorso di emancipazione femminile, che invita a riflettere sullo stato attuale della parità di genere in Italia e nel mondo.
Numerosi studi e dati sottolineano le diseguaglianze ancora presenti nella società, dall’ambito familiare a quello lavorativo, passando per l’istruzione, la politica, la salute. Oggi, tuttavia, l’esperienza delle donne è influenzata anche dal peso degli standard estetici che hanno un impatto significativo sulla crescita e le opportunità professionali.
Secondo l’indagine “Opinioni e vissuti relativi ai canoni estetici nel mondo del lavoro” dell’Osservatorio D di Valore D e SWG (2025), il 60% delle donne riconosce che gli standard estetici influenzano la propria carriera e il riconoscimento lavorativo. Il 53% degli intervistati crede che le donne considerate belle abbiano più possibilità di fare carriera. Tra gli uomini, questa convinzione è ancora più forte: 6 su 10 lo pensano. Ma attenzione: solo 1 persona su 3 crede che lo stesso valga per gli uomini.
Questi dati evidenziano come l’estetica non sia solo una questione di immagine, ma un vero e proprio strumento di potere che incide sull’accesso alle opportunità e sul modo in cui le donne vengono percepite nella società. Se ieri la bellezza era un dovere sociale, oggi è diventata un fattore che alimenta ansia da prestazione e senso di inadeguatezza. La professionalità continua a essere misurata attraverso stereotipi estetici: un sistema che non solo rafforza le disuguaglianze di genere, ma limita anche il potenziale di cambiamento sociale.
Maura Gancitano, filosofa e scrittrice, autrice di “Specchio delle mie brame. La prigione della bellezza” (Einaudi, 2022), ne parla per noi nell’articolo che segue, introducendo il tema della Live Valore D “Non è un paese per brutte”, in programma lunedì 10 alle 18.30.
Bellezza e potere: la parola a Maura Gancitano
Immagina di trovarti su un palco mentre stai parlando di un tema che conosci benissimo e che studi da anni. Nonostante gli sforzi fai fatica a concentrarti del tutto su ciò che stai dicendo, perché qualcosa continua a distrarti: il fastidio delle calze che tirano, della giacca troppo stretta, il timore che i vestiti si spostino senza che tu te ne accorga, la consapevolezza di avere così tanti occhi addosso.
Questo monitoraggio costante ti porta a guardarti da fuori, cioè ad avere una visione allocentrica del corpo, e ti toglie moltissime energie. Non è qualcosa di naturale, ma deriva dallo sguardo sociale, cioè dal modo in cui la cultura in cui siamo immersi ci ha educati a filtrare la realtà.
Ciò che vediamo degli altri e ciò che vediamo di noi, infatti, non ha niente di naturale, ma è fortemente influenzato dalle modalità in cui i corpi sono socializzati. Per questa ragione, le interferenze che vivi quando ti trovi su un palco, alzi la mano durante una riunione, sostieni un colloquio di lavoro, attraversi i corridoi dell’ufficio in cui lavori dipendono dal valore che al tuo corpo viene dato, dall’ossessione con cui viene guardato e giudicato, da quanto gli viene richiesto di adattarsi a certi standard.
Se sei una donna, le misure a cui aderire le conosci da sempre: le hai apprese dai programmi televisivi, dalle riviste, dai cartoni animati, dalle serie tv, ma anche dalle frasi – di apprezzamento o disprezzo – che hai sentito dire agli adulti intorno a te fin da piccola. Forse ti hanno detto che essere carina era un tuo dovere, o forse non sono stati così espliciti. In ogni caso, il messaggio è arrivato.
È possibile che sul lavoro tu abbia osservato con una punta di invidia i colleghi maschi accanto a te, seduti con naturalezza in abiti comodi, completamente assorbiti dall’argomento, presenti nella loro interezza intellettuale.
Le conseguenze sul lavoro
Messa così, la questione può sembrare esagerata: è normale che si venga osservati, ma se si acquisisce un po’ di autostima tutto questo può diventare un punto di forza. Oggi ci si lamenta di tutto, ma in fondo le donne non sono mai state tanto libere.
In realtà, gli studi scientifici degli ultimi trent’anni – a partire dalla teoria dell’oggettivazione formulata da Fredrickson e Roberts nel 1997 – sostengono che tendiamo a sottostimare gli effetti invasivi che gli standard di bellezza hanno sulle nostre vite. Del resto, uno sguardo così nocivo è un fatto più recente di quanto si possa pensare.
Se è vero, infatti, che il corpo femminile viene osservato, giudicato e misurato da millenni – sotto uno sguardo maschile violento e impietoso – i suoi effetti sociali coincidono con l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro. In sostanza, quando le donne iniziano a occupare spazi prima esclusivamente maschili, il controllo dell’aspetto diviene una strategia di contenimento del loro potere e, come evidenziano le ricerche, esiste una correlazione diretta tra l’aumento dell’indipendenza femminile e l’intensificarsi della pressione estetica.
Nel mondo professionale contemporaneo questa pressione si traduce in concrete disparità economiche, e la discriminazione basata sull’aspetto fisico assume dimensioni intersezionali, colpendo con particolare intensità le donne non bianche, grasse, anziane e non conformi agli standard dominanti.
Come evidenzia la ricerca di Emma Levine e Maurice Schweitzer, il 45% dei datori di lavoro è meno propenso ad assumere una persona considerata in sovrappeso, mentre il Workplace Hair Acceptance Report 2023 documenta che il 25% delle donne nere ha perso opportunità lavorative a causa dei propri capelli.
Nel 2022, il report The Economics of Thinness del The Economist ha confermato che la magrezza è diventata non solo un ideale estetico, ma un vero e proprio “marcatore di classe”. Se dall’Ottocento il grasso smise di essere un segno di ricchezza e prosperità e iniziò a essere associato a degenerazione, mancanza di civiltà e di autocontrollo, oggi la sua stigmatizzazione è profondamente legata alle trasformazioni del capitalismo, che ha reso il corpo stesso un progetto di investimento continuo e un campo di produzione di valore.
Esiste infatti una correlazione inversa tra indice di massa corporea e ricchezza nei paesi ad alto reddito: oggi il corpo magro si è trasformato in un “capitale simbolico” che può essere accumulato e speso nel mercato del lavoro. Questo porta le donne a tentativi costanti – e il più delle volte fallimentari – di modifica del proprio aspetto allo scopo di adeguarsi alle aspettative professionali.
In sostanza, per essere accettate cerchiamo di rendere i nostri corpi docili e disciplinati, spesso facendoci del male a livello fisico e psicologico, confondendo la cura di sé con l’ossessione e la mortificazione e spendendo tempo e denaro che forse preferiremmo destinare altrove. In sostanza, paghiamo un prezzo altissimo a uno sguardo tanto invisibile quanto violento.
Verso un cambiamento strutturale
È possibile invertire questa tendenza? Innanzitutto, per cambiare le procedure di recruiting, le pratiche e le culture aziendali, questi condizionamenti sociali vanno osservati e riconosciuti.
Il grande privilegio di questo tempo è il fatto che abbiamo a disposizione una larghissima letteratura scientifica e sempre più report che possono aiutarci a riconoscere i filtri che applichiamo alla realtà senza esserne consapevoli. Sono questi strumenti che oggi possono aiutarci a smantellare i pregiudizi di chi sostiene ancora che la bellezza non sia un fattore discriminante e che parlare di “mito della bellezza” sia la pavida giustificazione di chi non ha la forza di volontà necessaria per cambiare il proprio corpo.
Lo scopo finale di questo cambiamento strutturale non è – come a volte si crede – cancellare le differenze e fingere che le persone siano tutte uguali. Al contrario, si tratta di tutelare le diversità umane smettendo, però, di associare una caratteristica fisica al valore morale, alla competenza e alla dignità della persona. Questo cambiamento è difficile ma possibile, se lo vogliamo.
Fonti
The Economics of Thinness 2022
Workplace Hair Acceptance Report 2023
L. Avalos, T. L. Tylka, N. Wood-Barcalow, The Body Appreciation Scale: Development and psychometric evaluation, in «Body Image», 2 (3), 2005, pp. 285-97.
C. Criado Perez, Invisibili, Einaudi, Torino 2022
R. Engeln, Beauty Mania, HarperCollins, Milano 2018
Fredrickson B.L., Roberts T.A., Objectification theory: Toward understanding women’s lived experiences and mental health risks, «Psychology of Women Quarterly», 21(2), giugno 1997, pp. 173-206.
M. Gancitano, Specchio delle mie brame. La prigione della bellezza, Einaudi, Torino 2022
E. E. Levine, M. E. Schweitzer, The affective and interpersonal consequences of obesity,
Organizational Behavior and Human Decision Processes, Volume 127, 2015, Pages 66-84.
M. J. Mattingly, S. M. Blanchi, Gender differences in the quantity and quality of free time: The US experience, in «Social Forces», 81 (3), 2003, pp. 999-1030.
M. McKinley e J. S. Hyde, The Objectified Body Consciousness Scale: Development and validation, in «Psychology of Women Quarterly», 20, 1996, pp. 181-215.
N. Wolf, Il mito della bellezza, Tlon, Roma 2022
G. Riva, The key to unlocking the virtual body: virtual reality in the treatment of obesity and eating disorders, in «Journal of Diabetes Science and Technology», 5, 2011, pp. 283-92.