LAURA HA RICEVUTO UN PREMIO. Come manager di terzo livello nel settore del commercio, per un anno ha guidato un team in un progetto di riorganizzazione aziendale. Ha lavorato dodici ore al giorno per inventare un metodo efficace e vincere una sfida che, a detta del suo capo, nessun altro sarebbe riuscito ad affrontare. Da qui i complimenti e un riconoscimento economico, una tantum. Il suo collega di pari grado e pari età che in quei mesi è rimasto a svolgere i compiti di sempre, dalle 9 alle 18, nella stessa settimana è stato promosso. Quando Laura è tornata dal capo si è sentita rispondere: «Non serve che ne parliamo, per te non c’è crescita, la tua area di competenza è più piccola. Non puoi prenderti così a cuore le cose». Laura ha 43 anni, un master conseguito mentre lavorava, una famiglia. È una delle voci che ascoltiamo tutti i giorni e che raccontano, con episodi di vita vera, di cosa è fatto quello che gli studi statistici chiamano gender pay gap . La disparità retributiva tra donne e uomini è una realtà, di cui si discute in tutti i paesi sviluppati. In Italia la parità salariale è sancita da un decreto del 2006, una delle prime leggi attivate in Europa: le aziende che non la rispettano sono già sanzionabili. Ma dimostrarlo sembra impossibile. La costruzione dello stipendio e l’andamento della carriera si giocano su fattori variabili. Bisogna fare una distinzione tra pubblico, dove c’è più equità e tracciabilità, e privato; considerare che il percorso professionale di una donna spesso ha delle interruzioni; che le ore del part-time valgono meno; che faticando a essere assunte, molte scelgono il lavoro temporaneo, il cui valore economico è minore, o non hanno un’occupazione; che il discrimine tra incarichi “da maschi” e “da femmine” persiste. È così che il gap di genere complessivo nel nostro paese si attesta al 44% (Eurostat) e raggiunge picchi scoraggianti: nel lavoro autonomo le italiane guadagnano in media il 54% in meno. «Il dato è stato presentato nell’incontro di dicembre al Cnel», ci dice Francesca Bagni Cipriani, consigliera nazionale di parità. La buona notizia è che sull’occupazione femminile i riflettori, ora, sono ben puntati. «Sono dati che emergono perché segnalano un malessere. NON È NECESSARIAMENTE FRUTTO DI UNA POLITICA AZIENDALE PERVERSA ma una condizione generale che ha al centro un tema di cui nessuno si prende carico, il lavoro di cura». Ci fa un semplice esempio: il datore che deve scegliere chi assumere sa che una donna probabilmente affronterà almeno una maternità, e che sarà lei a occuparsi della nonna se si rompe il femore. In una delle numerose aziende italiane con 8-10 dipendenti, l’assenza di una persona è un problema. Per il titolare, selezionare un uomo diventa ovvio. «Serve un sistema di servizi sociali che prescinda dall’azienda e che bussi alla porta della lavoratrice per sostenerla nelle sue scelte. In Europa lo stanno facendo. Noi con il Jobs Act abbiamo fatto esperienza di bonus bebè, orari flessibili, congedi, ma non basta». Come e quando riusciremo allora a colmare questo divario? Lo chiediamo a Claudia Parzani, avvocato d’affari, managing partner per l’Europa di Linklaters. «Uno studio di Accenture dice che, se andrà tutto bene, potremmo farcela nel 2049. Rispetto al 2091 delle proiezioni. Succederà quando avremo accesso a posizioni manageriali ed esecutive. Qui si apre un tema macro: cosa studiano le ragazze ? Materie umanistiche, mentre non ci sono abbastanza donne ingegnere. Io ho tre figlie, voglio dar loro più strumenti possibili e farle misurare con la passione. Il lavoro cambia, il digitale e i data stanno portando mestieri nuovi, ne sono stati classificati 7 mila in più dal 2000 al 2016. Si darà spazio alla creatività, ma anche alla competizione: bisogna inserirsi nel percorso giusto da subito». A QUESTO SCOPO È NATO INSPIRING GIRLS, un progetto lanciato da Parzani con Valore D per portare nelle scuole medie italiane le testimonianze di 380 professioniste di successo: una astronauta, un’allenatrice di calcio… A ragazzine e ragazzini serve la consapevolezza di poter fare tutto, al di là degli stereotipi. Perché c’è una questione culturale e psicologica di fondo: noi donne sotto sotto pensiamo di non essere all’altezza, di non meritarci quel ruolo e quello stipendio. «Per noi l’ambizione è una vergogna, siamo cresciute calmierate, ci dicevano di non chiedere a papà, non disturbare. Ce lo portiamo dietro tutta la vita». Sulla formazione della nuova generazione possiamo invertire la rotta, ma per noi, per una quarantenne come Laura, cosa si può fare? «Usare l’intelligenza per riconoscere i nostri limiti e prendere il meglio dagli altri. Il mio trucco è: se dovete trattare lo stipendio andate prima da un vostro amico, fatevi dire come si comporterebbe, che cifra chiederebbe. Vedrete, sarà sempre il 30% in più di quello che pensavate. Fate come loro, non abbiate paura dei no»..