Il piacere di lavorare dopo i 50 anni

Io Donna
24/02/2019

Di Paola Centomo

Altro che invisibili. O proiettate solo verso la pensione. Oggi le donne con tanta esperienza hanno da dare (e ricevere) molto dal lavoro. Lo sottolinea una nuova ricerca e molte aziende l’hanno capito. Ma tutte possono crederci. E investire su di sé.
Si può avere l’idea, se si lavora da trent’anni e magari sempre nello stesso posto, di aver già dato tutto, di aver speso ogni entusiasmo, impiegato ogni talento, esplorato ogni possibilità di realizzazione e che dunque poco o nulla resti da dare, e neanche da ricercare, figuriamoci da sognare. Si può avere l’idea che neanche l’azienda ci incoraggi più così tanto e forse ci scambierebbe già da domani, potesse, con qualcuna di più giovane, in attesa che arrivi il tempo del nostro ritiro. Che però, resta lontano.

Talenti senza data di scadenza

Che quella dei 50 anni e più sia, professionalmente, un’età fragile e problematica (anche perché condizionata da coltri di pregiudizi, più resistenti se si è donne) è dimostrato da una freschissima ricerca, Talenti senza età. L’ha condotta su quasi 13 mila lavoratrici/lavoratori di 34 aziende Valore D, associazione di imprese che opera per fare delle differenze – di genere, di cultura e, sì, anche d’età – un’occasione di innovazione e competitività. Ne esce un quadro variegato: il 30,9 per cento dei cinquantenni è un talento attivo, ovvero coinvolto, realizzato, che lavora bene e ben valutato dall’azienda; il 45,7 per cento è un talento attivo ma in difficoltà: dà cioè molto sul lavoro, ma sente di avere meno prospettive sul futuro, ha una valutazione della propria performance inferiore, così come avverte di essere valutato meno bene dai superiori. Infine, il 23,4 per cento è un talento smarrito, con tutti i valori sopra citati in deciso ribasso.

I curatori della ricerca propongono anche delle soluzioni: abbattere nelle aziende gli stereotipi ghettizzanti sull’età e, al loro posto, far sbocciare scambi continui con i lavoratori più giovani; far sentire questa generazione più coinvolta e riconosciuta, e arrivare a seguirla con uno sguardo attento anche quando le avversità personali – come la malattia di un famigliare – aggiungono stress allo stress. Perché, neanche i supereroi – mette in chiaro la ricerca – tengono nel tempo.

Progetti mirati per i dipendenti maturi

Già diverse aziende hanno capito che coinvolgere i dipendenti di queste fasce d’età, peraltro numerosissima, con programmi appositamente pensati per loro è la chiave per attivarne entusiasmo, partecipazione e voglia di crescere. TIM ha puntato in passato sull’offerta di corsi universitari telematici per aggiornare le competenze e oggi sul progetto Longevity, che ridisegna piani formativi e misurazione del potenziale; BNL ha lanciato il network WeGenerations, che incoraggia lo sviluppo personale incentivando lo scambio generazionale; Microsoft scommette sul reverse mentoring, in cui sono i più giovani a trasmettere competenze ai senior (soprattutto quelle tecnologiche); Procter&Gamble si concentra su giornate formative ispirate alle tecniche del pensiero positivo, cruciali per allenare la resilienza in chi, per età, si ritrova a essere genitore del proprio genitore e sperimenta lo stress di conciliare lavoro e accudimento famigliare.

Spazio all’iniziativa individuale

«In ogni caso, poiché non è affatto scontato che le aziende si facciano carico del coinvolgimento di questa generazione e poiché il lavoro sta attraversando cambiamenti profondi e rapidissimi, occorre muoversi anche come singoli, in modo propositivo e mirato, se si vuole reggerne il passo e magari costruire anche nuove opportunità», dice Simona Alini, 55 anni, coach e trainer certificato ICF e responsabile dell’area di Leadership Coaching di Elan, che per Valore D tiene appunto seminari per migliorare la cosiddetta employability, (letteralmente la “occupabilità”, ndr) l’insieme di scelte e azioni con cui si “coltivano” i propri talenti professionali. Non si tratta, però, solo di tenere allenate le competenze acquisiste e di apprenderne di nuove per continuare a essere in linea con le esigenze del mercato o di proporsi in un ruolo professionale più stimolante. «Quello che fa la differenza è mettere in campo uno spirito nuovo, una logica di crescita che renda credibile pensare di ridisegnare tutto», riprende Alini. «Vanno messe in gioco leve come la fiducia in se stesse, l’apertura mentale, l’autoefficacia, la voglia di imparare a imparare».

Serve cambiare il modo di pensare a se stessi

Abolire il termine ormai. «”Quel che avevo da dare ormai l’ho dato”, “non mi cerca più nessuno, ormai”. Dirci “ormai…” spegne le energie, sbriciola le ambizioni, ci toglie potere», premette Anna Simioni, 56 anni, advisor in Bosting Consulting Group, che per Valore D tiene seminari sulla fiducia. «C’è un bel brano del cantante Georges Moustaki che evoca bene come si possa spendere la vita a dirsi che è sempre troppo tardi per un progetto o per un sogno, salvo accorgersi – dopo – che si era sempre ancora in tempo. Ecco, persino nel caso in cui progettiamo di ritirarci nel giro di una manciata di anni, è assurdo – e ci può fare molto male – vivere questo tempo con la logica dell’ ormai. Bisogna al contrario darsi una visione di futuro, sempre. Perché i cinquant’anni possono essere un punto di svolta potente: i miei lo sono senz’altro stati». «Sono appassionata degli studi di Carol Dweck, dei cui libri, tradotti anche in italiano, consiglio la lettura», continua Simioni. «Questa docente di Stanford che aveva teorizzato che la visione che abbiamo di noi stessi condiziona fortemente il nostro modo di stare al mondo, ha messo in luce le tante limitazioni a cui ci costringiamo quando ci convinciamo di avere tratti della personalità fisse e qualità in qualche modo immutabili. Al contrario, i suoi studi dimostrano che chi si pensa in continua evoluzione ha molte più probabilità di realizzare il suo potenziale e progredire. Io stessa, lavorando su di me, sono riuscita ad acquisirla, questa mentalità di crescita cara alla Dweck, ricavandone grossi vantaggi».

È il momento di far fruttare l’esperienza

I cinquantenni fanno fatica ad apprendere? È un pregiudizio tenace, purtroppo. «Se è vero che con l’età diminuisce la capacità di apprendere il nuovo, così come la memoria, l’attenzione e il ragionamento astratto è invece vero, e lo dimostrano le ricerche, che aumenta la cosiddetta intelligenza cristallizzata, cioè la capacità di mettere a frutto le competenze e le esperienze rilevanti per la professione», afferma Simona Alini. Per le lavoratrici, questa è anche l’età in cui riappropriarsi di se stesse, come spiega Anna Simioni: «Le donne spendono la vita in uno slalom affannoso di impegni che spesso, nella gestione urgente del contingente, impedisce loro di guardarsi in prospettiva. I cinquant’anni dovrebbero essere invece il tempo del bilancio. Quello che induce a porsi domande come: dopo tutti questi anni, chi sono io, e chi ancora voglio essere? Cosa so fare meglio? E in cosa posso diventare ancora più brava? Non mi riferisco solo alle classiche capacità professionali, ma alle metacompetenze, quelle cioè che coinvolgono in modo trasversale più ambiti e di cui il tempo e le esperienze, anche quelle non esclusivamente professionali come la maternità, hanno equipaggiato noi cinquantenni. Ecco, questa è l’età giusta per riconoscere il tanto che si è imparato, tirarlo fuori, lucidarlo, offrirlo finalmente agli occhi degli altri. Di riproporsi all’azienda, dopo che ci si è riproposte a se stesse».

Anche se si pensa di andare in pensione entro pochi anni, è sbagliato vivere i 50 rivolte al passato. Bisogna darsi una prospettiva di futuro, perché questo tempo può essere quello di una svolta potente.

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