Di Daniela Poggio
«Non ho mai capito esattamente cosa si intendesse per femminista. So soltanto che ho incontrato persone che mi hanno chiamata femminista ogni volta che esprimevo opinioni che mi distinguevano da uno zerbino». Lo diceva Rebecca West, al secolo Cicely Isabel Fairfield, scrittrice britannica di origini scozzesi e irlandesi, famosa per i suoi romanzi di viaggio e per il suo impegno nelle cause in difesa delle donne e dei principi liberali. Visse tra il 1892 e il 1983. «Ti scrivo in cerca di conforto», mi scriveva qualche settimana fa una cara amica dopo essere stata fortemente criticata in un board (di soli uomini) a causa delle sue “attività femministe”. Nello specifico “le attività femministe” erano consistite nella partecipazione a un gruppo di lavoro promosso alla Camera dei Deputati per studiare le disuguaglianze di genere e promuovere iniziative legislative il più possibile trasversali volte a supportare il ruolo della donna nella società. Una iniziativa dell’Onorevole Alessandro Fusacchia con l’ambizione di farne un tavolo di lavoro ampio e partecipato. Ecco, questo tipo di impegno ha suscitato lo sdegno di alcuni uomini per etichettare una donna come “femminista” dando ovviamente a questo termine una connotazione negativa. Capita anche con (alcune) donne: «Non fare la femminista». Ma che cosa vuol dire essere femminista? Lo sappiamo? E perché oggi sono proprio le donne anagraficamente e culturalmente più lontane dal femminismo ad averlo scoperto o riscoperto? Donne imprenditrici, donne delle aziende, donne che per svariati motivi ad un certo punto della loro vita, o perché hanno incontrato il “tetto di cristallo” o per motivi più personali, come nel mio caso, hanno sentito l’urgenza di esporsi di più e il bisogno di stringersi di più. Non dovrebbe stupire il perché.
Ce lo dice l’ultimo World Economic Forum di Davos: la parità di genere resta una priorità (così come la salute delle donne tra carichi di lavoro e cure familiari. A livello globale gli uomini possiedono ancora il 50% in più della ricchezza netta delle donne e controllano oltre l’86% delle aziende. E le cose non vanno meglio per la parità salariale. Anche il divario retributivo di genere infatti, pari al 23%, vede le donne in posizione arretrata A parità di mansioni, inoltre, le donne percepiscono ancora stipendi significativamente inferiori a quelli degli uomini e il 30% delle madri che hanno un lavoro lo interrompe alla nascita del figlio. Sarà anche per questo che in Francia, dove soltanto il 6% delle aziende rispetta l’uguaglianza salariale tra uomini e donne a parità di impiego, Macron ha imposto alle aziende la pubblicazione della differenza di remunerazione e la parità nelle promozioni. Un esercizio di trasparenza che sarà avviato subito per le aziende con mille o più dipendenti. A seguire, le imprese con più di 250 dipendenti e poi quelle con più di 50 dipendenti. Se non rispetteranno le misure, avranno tre anni per rimediare alla situazione, pena di sanzioni pecuniarie. E l’Italia? L’ultimo report del World Economic Forum sulle disparità di genere conferma: su 149 Paesi, l’Italia occupa la settantesima posizione.
Sta tutto qui il motivo per cui le “donne delle aziende” stanno volgendo uno sguardo nuovo al femminismo, in parte contaminandolo: nel linguaggio, nelle strategie di risposta, nel dialogo con gli uomini che in una azienda necessariamente deve avvenire, nella negoziazione per ottenere una reale parità di genere, oltre il solo “rumore di fondo”. Perché il femminismo è questo. Impegnarsi attivamente per una società in cui uomini e donne abbiano pari diritti, ma partendo dal riconoscimento che la disuguaglianza di genere esiste. E allora, come si fa a non essere un po’ tutti femministi in un mondo che non sembra ancora pronto a valorizzare il talento femminile, e che “fatta la legge trovato l’inganno”? L’ho scritto spesso – anche in questo blog
– per me la scoperta del femminismo à arrivata con l’impegno a contrastare il disegno di legge Pillon e grazie a tante donne femministe ho capito che le nostre conquiste non sono così scontate e le dobbiamo a chi prima di noi ne ha fatto una battaglia.
Resto una “donna d’azienda”, non sono certo diventata una icona del femminismo radicale o intersezionale. Ma mi piace chiedermi: oggi, cosa possiamo restituire noi donne che “siamo arrivate” alla società e alle giovani donne? Cosa possiamo e dobbiamo recuperare dello storia del femminismo e come possiamo vivere e praticare un nuovo femminismo, inclusivo e culturale, prima di tutto nella nostra vita per contribuire ad una reale parità di genere? Ne ho parlato con Sandra Mori, Presidente di Valore D, l’associazione che ha come obiettivo l’equilibrio di genere e una cultura inclusiva nelle organizzazioni e nel nostro Paese, e mi ha trasferito con grande passione questo messaggio: «Viviamo in un’epoca caratterizzata dal paradosso che diritti sanciti dalla Costituzione sembrano essere messi in discussione. Oggi è più che mai necessaria una reale evoluzione culturale della nostra società nel senso dalla uguaglianza di genere, che non può essere solo una conquista legale, ma prima di tutto culturale. Per fare questo le donne che hanno conquistato posizioni di potere devono aiutare le altre donne ad emergere».
Quote di genere o merito – le chiedo. «Basta con questa storia del merito, come se una donna per il solo fatto di essere donna non avesse merito. Il punto è un altro: è possibile che non ci siano mai donne meritevoli quando si tratta di scegliere». Ed ecco allora ecco cosa possiamo fare noi, donne delle aziende, per evitare il rumore di fondo e iniziare ad agire un piccolo, grande cambiamento:
1. Sdoganiamo il termine. Il femminismo rivendica una società in cui uomini e donne possano avere pari diritti. Essere femministe oggi significa per noi – donne delle aziende – impegnarsi per l’equilibrio di genere e per
una cultura inclusiva nelle organizzazioni e nel nostro Paese;
2. Pratichiamo il femminismo. Assumiamo o promuoviamo donne quando possiamo farlo. L’occupazione delle donne in Italia è a seconda delle fasce di età tra il 48% e il 51%, e stando agli ultimi dati dell’Ispettorato nazionale del lavoro le dimissioni delle neo-mamme sono in crescita (ad oggi sono già il 30%).
3. Affianchiamo al femminismo la “sorellanza”. Sosteniamo le altre donne, sempre. Anche quando sembrano le nostri peggiori nemiche. Diventeranno le più grandi alleate (a me è capitato!). Parliamoci, supportiamoci, usciamo a pranzo insieme, abbattiamo il modello “Eva contro Eva” e sostituiamolo con la leadership del cuore, come scrive Silvia Tassarotti, coach e consulente aziendale, in un bel libro.
4. Diamo voce al femminismo. Pensiamo a nomi di donne quando abbiamo la possibilità di includere dei relatori a un evento. È una piccola ma importantissima azione che ne può cambiare la narrazione.
5. Siamo tutti femministi. Una società in equilibrio è una società più sana. Portiamo gli uomini dalla nostra parte. Quelli che ci credono, e che soprattutto non lo temono. Ci sono e stanno chiedendo come possono aiutarci. Perché, come scriveva G. D. Anderson: «Il femminismo non significa rendere le donne più forti. Le donne sono già forti. Si tratta di cambiare il modo in cui il mondo percepisce questa forza»