Dati e disuguaglianze: la lunga strada verso la parità di genere in Italia

*questo contenuto è stato scritto per Valore D da Donata Columbro, giornalista, divulgatrice e scrittrice. 

La disuguaglianza di genere è ovunque, se osserviamo bene. La possiamo notare nelle esperienze quotidiane, nei racconti che facciamo alle amiche, negli aneddoti che leggiamo online, nei titoli di giornale che raccontano di quando “una donna” – spesso senza nemmeno indicarne il nome e cognome –  diventa, per la prima volta nella storia, la responsabile di un settore a maggioranza maschile, dalla medicina all’aeronautica, dalla finanza alla politica. È molto difficile negare di essere in una società ancora profondamente maschilista e sessista, ma solo con i dati possiamo davvero unire i puntini, accumulare prove, anche per cambiare la situazione. 

Tra gli strumenti sviluppati dall’Unione Europea per misurare le disuguaglianze nei paesi membri c’è il Gender Equality Index, prodotto dall’Eige, l’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere: l’ultimo rapporto è stato pubblicato nel dicembre 2024 ed è molto utile per avere una fotografia dei progressi nel raggiungimento della parità di genere in Europa. Con un punteggio di 69,2 su 100, l’Italia si colloca a metà classifica, nonostante i grandi progressi dal 2010 (+15,9 punti). Siamo, ovviamente, molto lontani dagli standard dei leader europei come Svezia e Danimarca. 

I dati non sono neutrali: chi li raccoglie, come li analizza e a quali scopi li utilizza riflette i bias e le priorità della società. Questo è il punto centrale del femminismo dei dati, un approccio che mira a evidenziare le disuguaglianze e a utilizzare i numeri non solo come descrizione, ma come strumento di giustizia sociale. A parlare per prime di data feminism e riunire le pratiche che lo contraddistinguono sono state le ricercatrici e docenti Catherine D’Ignazio e Lauren Klein, che nel 2020 hanno pubblicato in open access il loro volume Data Feminism per MIT Press. Il fatto che vengano raccolti dei dati su un certo argomento, o non raccolti, è una questione di potere. Il data feminism cerca di individuare chi detiene questo potere, si interroga su chi è beneficiato dall’esistenza di certi dati o dalla loro mancanza e chi invece ne è discriminato. Attraverso l’analisi disaggregata per genere, età, provenienza e altre variabili, possiamo scoprire come il sistema riproduca o amplifichi le disparità. L’Eige, con il suo Gender Equality Index, applica questa logica, permettendo di monitorare i progressi e individuare aree critiche per l’intervento.

Cosa misura questo indice? Ci sono sei settori di indagine principali, lavoro, denaro, conoscenza, tempo, potere e salute, a cui si è aggiunto un settimo dedicato alla violenza di genere.

I dati del report per l’Italia mettono in luce persistenti disuguaglianze nei domini del potere e del denaro, due aree cruciali per il raggiungimento dell’uguaglianza di genere. Ognuno include una serie di indicatori che analizzano aspetti chiave, come l’accesso al mercato del lavoro, le disparità retributive, la partecipazione ai ruoli decisionali e l’accesso all’istruzione e alla sanità. L’Italia ottiene punteggi bassi nell’ambito del lavoro, del potere e della conoscenza, aspetti che sono in qualche modo legati gli uni agli altri.

Per quanto riguarda il “potere”, per l’Eige questa è una delle criticità italiane, visto che abbiamo un punteggio di 61,4 punti, tra i più bassi in Europa. Anche se le quote obbligatorie hanno aumentato la presenza femminile nei consigli di amministrazione delle aziende, i ruoli esecutivi di vertice restano saldamente nelle mani degli uomini. Secondo l’Istat, meno di un imprenditore su tre è donna, e nelle aziende le donne manager sono appena il 27% del totale dei dirigenti, ampiamente al di sotto del valore medio europeo, che è pari al 33,9% (dati Censis 2023). In ambito politico, nonostante un leggero miglioramento, le donne continuano a essere sottorappresentate sia a livello nazionale che locale: i dati del Viminale per esempio indicano che nell’84,7% dei comuni il sindaco è un uomo, mentre le donne che ricoprono la massima carica sono appena il 15,3% (fonte: dati Viminale raccolti dal report Sesso è potere 2024). Ed è collegato l’aumento della violenza di genere, soprattutto online, come un ostacolo significativo: le donne in politica sono spesso bersaglio di campagne d’odio e molestie sessiste, che scoraggiano l’accesso a ruoli pubblici e decisionali.

Se ci spostiamo nel settore culturale e accademico, la situazione è migliorata negli ultimi anni, se pensiamo che tra il 2020 e il 2024 il numero delle rettrici è più che raddoppiato, ma guardando ai numeri della Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (Crui), che riunisce atenei statali e non statali riconosciuti, le donne sono solo 17 su 85 membri in totale.

Per quanto riguarda l’occupazione e il lavoro non è un mistero che l’Italia sia tra gli ultimi paesi europei per quanto riguarda l’occupazione delle donne. Secondo il nuovo Gender Policy Report 2024 dell’Inapp (l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche), anche se nel 2023 il tasso di occupazione femminile ha raggiunto il 52,5%, con un incremento di 1,4 punti percentuali rispetto al 2022, resta al di sotto della media Ue del 65,7%, E resiste un divario significativo rispetto agli uomini, che hanno un tasso di occupazione del 70,4%. Le disuguaglianze riguardano anche la povertà lavorativa, dal momento che le donne sono maggiormente soggette al fenomeno del “lavoro povero”, con un’incidenza del 18,5% rispetto al 6,4% degli uomini. Cosa vuol dire? Che le donne hanno retribuzioni orarie più basse e a una minore intensità lavorativa. In media, infatti, le donne percepiscono una retribuzione oraria inferiore dell’11% rispetto agli uomini, con differenze territoriali che variano tra il -13,8% nel Nord-Ovest e il -8,1% nel Sud. E quando le donne lavorano, lo fanno part time, a causa del maggior impegno nella cura della famiglia: tra le donne inattive, il 34% indica come motivazione la cura familiare, una percentuale significativamente superiore rispetto al 2,8% degli uomini. 

Gli stereotipi di genere continuano a influenzare la scelta delle carriere e limitano le opportunità per le donne di entrare in settori dominati dagli uomini: l’Eige sottolinea infatti come le donne siano sovrarappresentate nei settori a basso reddito, come sanità e istruzione, e sottorappresentate in quelli ad alta retribuzione, come tecnologia e ingegneria..

Le donne colpite da povertà e disuguaglianze retributive

La povertà lavorativa coinvolge maggiormente le donne anche perché sono spesso impiegate con contratti precari. I dati Inapp ci raccontano che nel primo semestre del 2024 il 40,4% delle nuove assunzioni femminili era a tempo determinato, mentre solo il 13,5% a tempo indeterminato. Inoltre, quasi la metà dei contratti femminili (49,2%) è part-time, a fronte del 27,3% degli uomini. La combinazione di contratto a termine e part-time riguarda il 64,5% delle lavoratrici, rispetto al 33% degli uomini.

Dati confermati anche dall’Eige, che nota quanto il divario salariale sia particolarmente marcato tra i genitori e le persone altamente istruite. Questo è il risultato di una combinazione di fattori, tra cui la concentrazione femminile in settori a basso reddito (come istruzione e sanità) e la persistente segregazione occupazionale.

Il rischio di povertà è più alto per la popolazione femminile soprattutto nella vecchiaia, a causa di pensioni inferiori legate a carriere interrotte o ai contratti part-time. Questo rende molte donne dipendenti economicamente dai partner, aumentando la loro esposizione a forme di violenza economica, come dimostrano gli ultimi dati Istat: le violenze economiche sono segnalate dal 19,7% delle donne (2.854) che contattano il 1522, ma le più esposte sono le casalinghe (41%), le lavoratrici in nero (33%) e le disoccupate (31%). Sebbene misure recenti, come la direttiva europea sulla trasparenza salariale, mirino a ridurre tali divari, il progresso è ancora troppo lento.

Il dato disaggregato di Inapp ci permette inoltre di notare come le donne migranti affrontino ulteriori difficoltà nel mercato del lavoro: nel 2023, il loro tasso di occupazione era del 48,7%, inferiore a quello delle donne italiane (53%), mentre il tasso di disoccupazione è del 14,2%, rispetto all’8,3% delle native. E per quanto riguarda la violenza di genere, possiamo osservare i dati di accesso al pronto soccorso per le donne con indicazione di violenza nei referti: tra le donne straniere, si registrano 37,3 accessi al pronto soccorso per violenza ogni 10.000 accessi complessivi, un dato che risulta più del doppio rispetto a quello delle donne italiane, che si ferma a 16,1. Il divario diventa ancora più evidente nella fascia d’età tra i 35 e i 49 anni: in questo gruppo, le donne straniere segnalano 51 accessi per violenza ogni 10.000, mentre le italiane coetanee si fermano a 30,8. 

Disuguaglianze che hanno radici storiche

Sono passati solo 62 anni dall’abrogazione di una legge che consentiva di licenziare le donne che si sposavano, giustificandolo con l’obiettivo di “proteggere la funzione familiare della donna”. Solo grazie all’impegno dell’onorevole Giuseppina Re, nel 1963 questa norma discriminatoria è stata abolita. Secondo le storiche Gisela Bock e Barbara Duden, autrici del libro “Lavoro d’amore – amore come lavoro” (Ombre Corte ed, 2024) il lavoro domestico, inteso come attività non pagata svolta principalmente dalle donne, non è una tradizione antica, ma una forma specifica di sfruttamento emersa tra il XVII e il XVIII secolo, parallelamente all’avvento del lavoro salariato. Nelle comunità contadine, il lavoro di marito e moglie era un tutt’uno: entrambi contribuivano alla sopravvivenza della famiglia, con ruoli complementari e insostituibili. Poi è arrivato il capitalismo, con una nuova idea di lavoro: energia impiegata per produrre beni e servizi destinati al mercato. E, come per magia, tutto ciò che non rientrava in questa definizione – il lavoro domestico e di cura – è stato reso invisibile, privo di riconoscimento economico, consolidando la posizione di inferiorità delle donne nella società capitalista. Questo cambiamento non è stato casuale. Definire il lavoro domestico come un “atto d’amore” ha permesso di risparmiare sui salari e di mantenere il controllo sulle risorse femminili. 

Il risultato? 

Le donne sono state confinate tra le mura domestiche, escluse dal potere economico e giuridico, e costrette a un ruolo di subordinazione che persiste ancora oggi, come abbiamo raccontato con i dati di numerosi report. 

Usarli per creare politiche e interventi mirati è il modo più concreto di rendere la parità di genere una realtà.

Articoli correlati